di Franca Regina Parizzi
Le malattie infettive sono eventi naturali, ma la loro diffusione epidemica – addirittura pandemica, come quella attuale da Coronavirus – è sempre conseguenza delle misure adottate a livello politico e non soltanto delle modalità di vita, di socializzazione, di organizzazione della società. Certamente non è questo il momento migliore per un’analisi serena e obiettiva della situazione drammatica che stiamo vivendo, ma alcune domande ce le dobbiamo porre già adesso, anche se le risposte forse arriveranno in un secondo tempo, dopo un’accurata analisi epidemiologica – da parte di esperti – delle correlazioni causa-effetto tra misure adottate, comportamenti sociali e diffusione del contagio.
In data 30 Gennaio l’OMS dichiara lo stato di emergenza internazionale per il Coronavirus. Il giorno successivo, 31 Gennaio, il Consiglio dei Ministri dichiara lo stato di emergenza nazionale per sei mesi (cioè fino al 31 Luglio!). La delibera è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 1° Febbraio. Fino a quel momento, risultavano contagiati da Coronavirus solo due persone: una coppia di turisti cinesi ricoverati all’Istituto Spallanzani di Roma.
Alla dichiarazione di stato di emergenza nazionale non ha fatto seguito tuttavia alcun piano di intervento immediato per fronteggiare l’emergenza negli ospedali e negli ambulatori medici del territorio, dalla formazione del personale sanitario, all’approvvigionamento di dispositivi di protezione individuale, alla creazione di percorsi e triage differenziati per i casi sospetti, ad una valutazione dei posti letto che probabilmente sarebbero stati necessari sia nei reparti di Terapia Intensiva che nei Reparti di Malattie infettive. Probabilmente, sì, perché l’esperienza della Cina era già nota. Ma il rischio che nel nostro Paese si ripetesse una situazione analoga è stato certamente (colpevolmente?) sottovalutato. Eppure il primo allarme era stato lanciato da Roberto Burioni già l’8 gennaio, più di due mesi e mezzo fa.
Analogamente, la gradualità delle misure restrittive atte a garantire il distanziamento sociale è stata inadeguata: il virus viaggiava molto, molto più in fretta. E’ stato detto “L’Italia non si ferma” quando invece doveva fermarsi. Subito. La decisione di frenare l’economia è stata tardiva, facilitando così il diffondersi del contagio. Molto in fretta, l’Italia (anche la sola Lombardia) ha superato la Cina per numero di contagiati, numero di ricoveri in Terapia intensiva, numero di decessi. Mentre la Cina si prepara a fronteggiare il rischio di una seconda ondata epidemica, noi non abbiamo ancora raggiunto il picco della prima ondata.
In un primo tempo, gli italiani sono stati ripetutamente rassicurati che il Paese era pronto ad affrontare l’eventualità di un’epidemia diffusa, poi di botto si sono trovati costretti a stare in casa, bombardati da immagini strazianti trasmesse in televisione sui pazienti ricoverati in Terapia intensiva, bare caricate su camion militari, dal numero esorbitante – e in continua crescita – di morti. Alla iniziale sottovalutazione del rischio, all’incoscienza, alla persistenza se non addirittura all’aggravamento di comportamenti sociali a rischio da parte dei cittadini (ma è stata davvero tutta colpa loro?) è seguita la paura. Una paura diffusa, generalizzata, un’altra epidemia parallela: quella dell’ansia, del terrore. Alimentata soprattutto dalla mancanza di certezze circa la fine dell’emergenza. Perché nessuno è in grado di dire oggi quando ne usciremo. E soprattutto, come ne usciremo? Si sta studiando un piano di graduale rientro alla normalità? Non mi sembra o non mi è noto. Quando le misure restrittive verranno gradualmente allargate per non penalizzare ulteriormente l’economia nazionale, ci sarà da aspettarsi un nuovo aumento dei casi? E’ molto probabile, ma non si intravede alcuno spiraglio. Perché il coronavirus non sparirà così in fretta come è venuto, questo è certo. E in assenza di una vaccinazione di massa nessuno potrà sentirsi fuori pericolo per molto tempo.
Intanto in Italia aumentano i casi di contagio e anche i morti. Come si è potuto rassicurare i cittadini che eravamo pronti ad affrontare l’epidemia dopo che la sanità pubblica è stata massacrata, e così pure la ricerca scientifica? Si è preferito focalizzare l’attenzione sulle necessità di attrezzature e personale nelle Terapie intensive, di moltiplicare i Reparti di degenza e le Terapie intensive, di creare nuovi ospedali Covid. Si sono elevati al ruolo di “eroi” gli operatori sanitari, quando da eroi proprio non sono trattati, né prima né oggi, anzi oggi possiamo a gran voce dichiararli solo carne da macello.
Tutto per distrarre l’attenzione da inefficienze strategiche a livello centrale. “Questa epidemia non è un fenomeno che interessa soltanto la Terapia Intensiva, è una crisi umanitaria e di salute pubblica. Che richiede l’intervento di scienziati sociali, epidemiologi, esperti di logistica, psicologi e assistenti sociali” scrivono i medici dell’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo in una lettera pubblicata dal New England Journal of Medicine il 21 Marzo. Viene da chiedersi se i colpevoli non siano solo i politici, ma anche il team di scienziati che sono impegnati come consulenti del nostro Governo, quegli stessi scienziati che a gennaio e febbraio valutavano un “rischio zero” dell’Italia per epidemia da Coronavirus.
Il primo paziente italiano è stato ricoverato per Coronavirus il 20 Febbraio, ma presentava sintomi già da alcuni giorni. E’ molto probabile che già allora fossero presenti altri soggetti contagiati in Lombardia. I Pronto Soccorso e gli ambulatori dei Medici di Medicina Generale hanno accolto in quel periodo molti pazienti con sintomatologia simil-influenzale, alcuni con polmoniti a lenta, difficile risoluzione.
Molti operatori sanitari si sono contagiati. Gli ospedali e gli ambulatori medici si sono trasformati da luoghi di cura a luoghi di propagazione e amplificazione del contagio. Come, e più, dello stadio di San Siro gremito di tifosi per la partita Atalanta-Valencia giocata il 19 febbraio. Se allora una campagna massiccia di tamponi rinofaringei sarebbe stata necessaria e avrebbe consentito di isolare i focolai, adesso è troppo tardi. Sarebbe inutile. E non siamo neppure pronti. Mancano tamponi, personale di laboratorio, attrezzature. L’esito del tampone viene comunicato dopo giorni, anziché dopo poche ore. Mancano mascherine e disinfettanti per gli operatori sanitari, anche nei supermercati e nelle farmacie. Manca un piano per gestire un’epidemia nelle carceri, nelle strutture residenziali per anziani, nei centri di raccolta per i migranti, per assistere i senzatetto.
In che cosa dunque eravamo pronti? E che cosa si può fare ancora oggi, perché la situazione migliori e perché il Sud non debba pagare gli stessi errori? Sono tutte domande alle quali attendiamo una risposta.
Complimenti dottoressa Franca Regina Parizzi! Finalmente una ricostruzione fedele e puntuale degli avvenimenti e una lucida serie di riflessioni e domande di non facile risposta. Domande sulle quali dobbiamo attentamente meditare per le scelte di un futuro migliore e più consapevole. Grazie, veramente grazie!