di Fulvio Vassallo Paleologo
Il 31 gennaio scorso il Consiglio dei ministri ha decretato lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili, il COVID-19. Una decisione che è passata sottotraccia, e che ha avuto rilevanti conseguenze sull’adempimento degli obblighi di soccorso in mare stabiliti dalle Convenzioni internazionali. Da quella data un profluvio di decreti del Presidente del Consiglio (DPCM) ed ordinanze di Presidenti di regione e sindaci, hanno costituito un fitto reticolo normativo, di carattere amministrativo, che ha imposto il cd. distanziamento sociale, ed ha influito sulla indicazione di un porto sicuro di sbarco, imposta dal diritto internazionale del mare e sulla successiva destinazione dei naufraghi nel sistema di prima accoglienza. Frutto di questo stato di emergenza è stato di recente il decreto interministeriale impropriamente definito come “porti chiusi”.
Lo “stato di emergenza” è previsto dalla legge 225 del 24 febbraio 1992 in materia di Protezione Civile che prevede che venga emanata la delibera da parte del Governo in casi eccezionali. Secondo questa legge, ” al verificarsi degli eventi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c) come (,calamita’ naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari) il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del Ministro per il coordinamento della protezione civile, delibera lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione territoriale in stretto riferimento alla qualità ed alla natura degli eventi. Con le medesime modalità si procede alla eventuale revoca dello stato di emergenza al venir meno dei relativi presupposti.”
Come ricorda Ilenia Massa Pinto, “la Delibera del Consiglio dei Ministri dichiara che è in atto il tipo di evento emergenziale più grave tra quelli previsti dalla normativa sulla protezione civile: la lett. c) si riferisce infatti alle «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24». E l’art. 24 prevede che con la dichiarazione dello stato di emergenza il Consiglio dei ministri autorizzi l’emanazione delle ordinanze di protezione civile di cui all’articolo 25, che possono essere adottate «in deroga ad ogni disposizione vigente, nei limiti e con le modalità indicati nella deliberazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Unione europea”.
Come ha osservato David Puente, “la delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 con la quale viene “dichiarato per sei mesi lo stato di emergenza in conseguenza di un rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili” è un provvedimento che non ha forza di legge così come precisato dall’art.3 della legge n.20/1994. Articolo 3 dove si prevede che “nei confronti dei provvedimenti emanati a seguito di deliberazioni del Consiglio dei Ministri e degli atti del Presidente del Consiglio dei Ministri” debba esserci l’obbligo del “controllo preventivo di legittima da parte della Corte dei Conti” in quanto si tratta di provvedimenti ed atti “non aventi forza di legge”!
Il decreto legge 23 febbraio 2020 n. 6 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020 n. 13, specifica alcune norme di rango costituzionale che possono essere derogate , tra queste, ma l’elenco non è tassativo, la libertà di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost.), la libertà di riunione (art. 17 Cost.) e la libertà di professare la propria fede religiosa (art. 19 Cost, il diritto all’istruzione e alla cultura (artt. 9-33-34 Cost.), la libertà personale (art. 13); la libertà d’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 ss. Cost).
L’art. 3 di questo decreto legge elenca le forme attraverso le quali le misure di contenimento introdotte dal decreto possono essere adottate: «uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro della salute, sentito il Ministro dell’interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell’economia e delle finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti delle regioni competenti, nel caso in cui riguardino esclusivamente una sola regione o alcune specifiche regioni, ovvero il Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni, nel caso in cui riguardino il territorio nazionale».
In casi di estrema necessità ed urgenza, le misure di contenimento potranno essere adottate dal Ministro della salute, dai Presidenti di regione e dai sindaci, ai sensi dell’art. 32 della l. 23 dicembre 1978 n. 833, dell’art. 117 del d. lgs. 31 marzo 1998 n. 112 e dell’art. 50 del T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.
I provvedimenti con cui il ministro dei Trasporti, con un decreto interministeriale ha deciso il divieto di ingresso nelle acque territoriali soltanto alle navi battenti bandiera straniera che avessero soccorso naufraghi al di fuori della zona SAR italiana, limitata a poche miglia a sud di Pantelleria e Lampedusa, risulta dunque un atto di natura amministrativa che in base ai poteri conferiti al Governo ed alla Protezione civile dovrebbe fare fronte all’emergenza da COVID-19 proclamata sull’intero territorio nazionale. Si tratta di un atto comunque soggetto ad un sindacato giurisdizionale che dovrà accertare il rispetto del principio di uguaglianza, del principio di legalità, ed i requisiti di merito del provvedimento. Si dovrà valutare in sostanza se vietare il passaggio inoffensivo nelle acque territoriali, e lo sbarco in un porto sicuro in Italia, costituisca un mezzo appropriato per contrastare la diffusione dell’epidemia nel nostro paese, o non costituisca piuttosto, come già verificato dopo il cosiddetto decreto sicurezza bis dello scorso, e prima ancora con le “Direttive” dell’ex ministro dell’interno Salvini, un esercizio abusivo della discrezionalità amministrativa, oltre che per motivi di propaganda, all’evidente fine di ottenere un risultato politico nella trattativa con gli altri partner europei, con la chiamata in causa dello stato di bandiera della nave soccorritrice.
Le Convenzioni che non si possono aggirare
Si può ritenere che tra i “principi generali” dell’ordinamento italiano, che non sono derogabili in base alla dichiarazione dello stato di emergenza da parte del governo, ricorra, oltre al principio di non refoulement, affermato dalla Convenzione di Ginevra del 1951, il dovere primario di salvaguardare la vita umana in mare e di realizzare operazioni di ricerca e soccorso in conformità alle Convenzioni internazionali di diritto del mare, anche per l’espresso richiamo che si fa a tali Convenzioni negli articoli 10 e 117 della Costituzione italiana. Il diritto alla vita, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, il diritto alla salute ed il divieto di respingimenti collettivi costituiscono limiti alla sovranità dello Stato ed ai poteri discrezionali dei singoli ministri o dell’intero governo. Lo affermano in più occasioni i Tribunali internazionali, come nei casi Hirsi, Sharifi e Khlaifia decisi dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo con tre sentenze di condanna nei confronti dell’Italia.
L’articolo 15 del capitolo V della Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) 1974 fissa le regole di base in ordine alle operazioni di ricerca e soccorso. Secondo questa norma, “Ciascun Governo contraente si impegna ad assicurare che tutte le necessarie disposizioni siano prese per la sorveglianza e per il soccorso delle persone in pericolo in mare in prossimità delle loro coste»; ed inoltre: “Ciascun Governo contraente si impegna a fornire notizie concernenti i mezzi di salvataggio di cui dispone e gli eventuali progetti di modifica di tali mezzi”.
La Convenzione di Amburgo, conosciuta come SAR {Search and Rescue) 1979, stabilisce gli obblighi di ricerca e salvataggio a carico degli stati, gli aspetti tecnici più importanti di attuazione degli obblighi di soccorso sono contenuti nell’”Annesso alla Convenzione” che consta di sei capitoli. Secondo quanto affermato dal’art. 1 della Convenzione, “Le Parti si impegnano ad adottare ogni provvedimento legislativo o altro provvedimento appropriato necessari a dare pieno effetto alla Convenzione ed al suo Allegato, che è parte integrante della Convenzione. Salvo disposizione espressamente contraria, ogni riferimento alla Convenzione costituisce anche un riferimento al suo Allegato”. secondo l’articolo 2, punto 2 della Convenzione di Amburgo, “Nessuna disposizione della Convenzione dovrà essere interpretata in modo da pregiudicare gli obblighi o i diritti delle navi, definiti in altri strumenti internazionali.” Evidentemente per il governo italiano che ha disposto la chiusura dei porti con un decreto interministeriale basato esclusivamente sul richiamo alla Convenzione UNCLOS ed ha disposto poi il trasbordo dei naufraghi soccorsi dalla Alan Kurdi con un provvedimento della Protezione civile, basato erroneamente sulla Convenzione di Amburgo, questi richiami non valgono nulla.
Gli accordi tra gli stati previsti dall’Annesso sono finalizzati al soccorso immediato delle persone in pericolo in mare e non si prestano a giustificare defatiganti trattative tra stati al fine della ripartizione dei naufraghi. Le parti contraenti devono assicurare le necessarie disposizioni per l’approntamento di adeguati servizi di ricerca e soccorso intorno alle loro coste, in modo da garantire un’immediata risposta a qualsiasi chiamata di soccorso, e adottare urgenti azioni per la più appropriata assistenza a qualsiasi persona in pericolo.
Le parti sono invitate a coordinare i loro servizi e mezzi nazionali, creando dei centri e sottocentri di coordinamento (RCC e RSC), questi ultimi dotati di mezzi per telecomunicazioni con le unità navali ed aeree e con gli RCC e RSC adiacenti. Il terzo capitolo dell’Annesso alla Convenzione SAR prevede il coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso di ciascun Paese con quelle dei Paesi vicini e le procedure per le autorizzazioni da concedere per l’accesso di unità navali e/o aeree di soccorso di tali Paesi nelle o al di sopra delle acque territoriali nazionali. In base al punto 3.1.9 della Convenzione di Amburgo del 1979, oggetto di un emendamento introdotto nel 2004, «la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile». Tale obbligo ricorre anche nel caso in cui le attività di ricerca e soccorso debbano essere svolte al di fuori della zona Sar di competenza, laddove l’autorità dello stato che sarebbe, invece, competente in base alla delimitazione convenzionale delle zone Sar non intervenga, o non risponda entro un tempo ragionevole. Sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio.
Il quinto capitolo dell’Annesso definisce le fasi di emergenza per gli scopi operativi che caratterizzano un’operazione SAR, dalla ricezione di un messaggio di soccorso (allertamento) fino alla fase di intervento dei mezzi e loro coordinamento (fase di soccorso). secondo quanto previsto dal Paragrafo 5.1.9, “Ciascuna unità che è a conoscenza di un caso di pericolo adotta immediatamente delle misure a seconda delle sue possibilità al fi ne di prestare assistenza o dà l’allarme alle altre unità in grado di prestare assistenza ed avverte il centro di coordinamento di salvataggio o il centro secondario di salvataggio della zona in cui siè verificato il caso di pericolo”.
Nessuno stato, avvertito di un evento di soccorso di persone in situazione di pericolo in alto mare, può dunque rifiutare il coordinamento delle prime fasi delle attività Sar,o attendere l’esito di trattative con altri stati, ad esempio con lo stato di bandiera della nave soccorritrice, Appare poi del tutto fuorviante ritenere che lo stato di “primo contatto” possa essere lo “stato di bandiera” della nave soccorritrice sulla quale sono saliti i naufraghi, e non invece la prima autorità statale informata dell’evento di soccorso e chiamata a predisporre gli interventi necessari nel tempo più rapido possibile,attivando tutte le forme di coordinamento e di intervento previste dalla Convenzione di Amburgo. Se si ritenesse come paese competente per la indicazione del porto di sbarco sicuro quello di bandiera della nave soccorritrice, l’intero sistema del soccorso in mare risulterebbe inficiato, e non si può prevedere che tale regola operi esclusivamente a danno delle navi delle Organizzazioni non governative, e non anche per i soccorsi operati dalle navi commerciali, o da quelle militari, incluse quelle delle missione Eunavfor MED denominata IRINI, che infatti sbarcheranno in Grecia tutti i naufraghi che soccorreranno nell’ambito della loro attività.
La Convenzione Sar del 1979 impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (place of safety): a tal fine gli Stati membri dell’Imo (International maritime organization), nel 2004, hanno adottato emendamenti alle Convenzioni Solas e Sar, in base ai quali gli Stati parte devono coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in salvo, con una minima ulteriore deviazione, rispetto alla rotta prevista. Malta non ha accettato questi emendamenti. Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) dispongono che il Governo responsabile per la regione Sar in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Secondo le Linee guida «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove: la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12).
Secondo l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, titolato «Trattati in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale (jus cogens)», è nullo qualsiasi Trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale. Ai fini della stessa Convenzione, per norma imperativa di diritto internazionale generale si intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati nel suo insieme in quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso carattere. È bene ricordare che per Trattato internazionale si intende qualunque «accordo internazionale concluso per iscritto tra Stati e regolato dal diritto internazionale, che sia costituito da un solo strumento o da due o più strumenti connessi, qualunque ne sia la particolare denominazione».
Lo svolgimento del servizio di ricerca e soccorso è disciplinato in Italia dal dPR n. 662/1994 con cui è stata recepita la Convenzione di Amburgo e rientra nella competenza primaria del Ministero delle infrastrutture e trasporti che si avvale del Corpo delle Capitanerie di Porto/Guardia costiera che comunque risulta anche alle dipendenze della Marina militare.
L’obbligo di soccorso in mare non ha giustificazione di rifiuto
Nessuna disposizione della Convenzione di Amburgo del 1979 e del relativo “Annesso” giustifica il rifiuto di ingresso nelle acque territoriali imposto dal governo italiano con un decreto interministeriale, e successivamente dai governi maltese e di Tripoli, dopo l’azione di ricerca e salvataggio condotta dalla nave umanitaria Alan Kurdi della ONG tedesca Sea Eye. Un rifiuto addotto sulla base di una interpretazione errata dell’art. 19 della Convenzione UNCLOS di Montego Bay ( e non di Amburgo), peraltro erroneamente richiamato dal governo italiano e da alcuni commentatori. Questo articolo non autorizza la qualificazione come “passaggio offensivo” dell’ingresso nelle acque territoriali, e quindi in un porto di sbarco, delle navi di qualsiasi bandiera che abbiano effettuato un soccorso in mare e che per le condizioni oggettive del mezzo e per le condizioni soggettive dei naufraghi, tra i quali anche minori di età, hanno diritto allo sbarco immediato ed all’accesso alle procedure di protezione previste dalla Convenzione di Ginevra, dai Regolamenti europei Frontex 656/2014 e 1624/2016, e dalle disposizioni di legge nazionali.
In base all’art. 98 della Convenzione Unclos del 1982, titolato «Obbligo di prestare soccorso», ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri:1.presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; 2.proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa. In base alla stessa Convenzione, ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali.
La formulazione del decreto interministeriale recentemete adottato dl governo italiano con il “concerto” di ben quattro ministri, contiene ancora un erroneo richiamo ad una singola norma di una Convenzione internazionale, l’art. 19 comma 2 della Convenzione UNCLOS (non quindi alla Convenzione di Amburgo, come riportano i media incessantemente)). Secondo questa previsione lo stato potrebbe vietare l’ingresso di una nave nelle acque territoriali qualificando il suo passaggio come “non inoffensivo”. Risulta non inoffensivo il passaggio nel mare territoriale quando è “pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero” se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in attività come ” il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”. La previsione costituisce una deroga al principio della libertà di navigazione affermata dall’art. 19 della Convenzione UNCLOS al primo comma. Come norma in deroga non può essere estesa a casi diversi da quelli espressamente previsti per la sua applicazione. La sovranità degli stati non si può tradurre in una applicazione discrezionale delle Convenzioni internazionali che hanno sottoscritto e ratificato.
Questo stesso richiamo non può essere comunque utilizzato in modo isolato, al limite della strumentalizzazione, perché nei casi di soccorso in alto mare si verrebbe a stravolgere il fondamentale principio (art. 98 della Convenzione UNCLOS) che obbliga gli stati a prestare attività di assistenza e di coordinamento a qualsiasi imbarcazione in mare che abbia operato attività di ricerca e salvataggio, a prescindere dal tipo di imbarcazione, dalla bandiera che batte, dallo stato giuridico dei naufraghi e dalla natura civile o militare dei mezzi navali che hanno partecipato alle operazione di soccorso.
UNCLOS, una Convenzione internazionale chiara
In base all’art. 19 comma 2 della Convenzione Unclos, ” il passaggio di una nave nelle acque territoriali di uno Stato è permesso “fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. La disposizione ripresa dal decreto sicurezza bis avrebbe natura “meramente esemplificativa”, ma la lettera g) del comma 2 precisa che tra le attività che potrebbero portare a considerare il passaggio non inoffensivo c’è anche “il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”. Non trova alcuna giustificazione, né fondamento nelle Convenzioni internazionali, una limitazione all’ingresso nelle acque territoriali per le sole navi di soccorso che battono bandiera straniera. Navi che non violano le leggi sull’immigrazione ma adempiono ad obblighi di salvataggio che gli stati omettono da tempo.
A prescindere dallo stato di bandiera, quando una nave carica di persone soccorse in acque internazionali si trovi al limite o all’interno della cd. “zona contigua” alle acque territoriali, ricade sotto la giurisdizione dello stato, sia per l’adozione delle misure di carattere penale ed amministrativo, sia in modo corrispondente per quanto riguarda gli obblighi di sbarco e di assistenza dei naufraghi, con particolare riferimento ai minori ed ai soggetti più vulnerabili. Obblighi di assistenza che non potranno essere assolti inviando soltanto scorte di vestiario e rifornimenti di viveri o provvedendo alle esigenze sanitarie più urgenti, senza trovare una soluzione immediata di sbarco a terra.
Sulla base delle Convenzioni internazionali di diritto del mare, secondo quanto osservano sinteticamente Irini Papanicolopulu e Giulia Baj ,” l’obbligo di salvare la vita umana in mare vincola sia gli Stati sia i comandanti di navi . Tale obbligo richiede al comandante di assistere le persone in pericolo e di condurle in un luogo sicuro. In altri termini, la fattispecie del salvataggio in mare continua fino a quando il comandante non abbia fatto sbarcare le persone in luogo sicuro, e il suo ingresso nel mare territoriale e nei porti di uno Stato non può essere visto sotto luce diversa. Non si può quindi precludere il passaggio inoffensivo a una nave che ha soccorso persone in pericolo, anche al di fuori del mare territoriale, qualora questa intenda entrare al fine di perfezionare il proprio obbligo di salvare la vita umana in mare”.
“Nel documento si sottolineava che “il primo RCC (Centrale di coordinamento) contattato, anche se l’emergenza è avvenuta al di fuori della sua SRR (Zona SAR), mantiene la responsabilità dell’evento finché sia accertato che l’RCC competente per quella regione, o altro RCC, abbia dichiarato di assumere il coordinamento e si sia effettivamente attivato in tal senso (p. 20)”. La Centrale operativa della guardia costiera italiana rimane dunque responsabile dell’operazione SAR, e per essa il ministero dell’interno che ne stabilisce le linee di azione, fino a quando non sia accertato che i naufraghi siano stati presi in carico da un paese che garantisca un porto sicuro di sbarco. E dunque “non è giustificabile la prassi degli Stati membri del Consiglio d’Europa consistente nel tentare di dirottare le richieste d’aiuto proveniente dalla SRR libica sul JRCC di quel paese; al contrario, deve ritenersi che il diritto internazionale determini il radicamento ed il mantenimento della responsabilità in capo agli stessi RCC continentali”. Né sembra che sia attribuibile ad un Centro di coordinamento tedesco od olandese il coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale, motivando così un rifiuto, da parte dello stato più vicino, di intervento e della indicazione di un “porto sicuro di sbarco”.
La legge contro alcuni decreti legge
Tutti i tribunali che hanno finora deciso sulle accuse rivolte contro i comandanti e i capomissione delle ONG, incriminati per avere soccorso naufraghi in acque internazionali ed averli sbarcati in Italia, hanno ritenuto sussistente la causa di giustificazione di adempimento di un dovere secondo l’art. 51 del Codice Penale, o l’altra, prevista dall’art. 54 del Codice Penale, dello stato di necessità. La Corte di Cassazione in una sua recente sentenza sul caso Rackete (Sentenza 20 febbraio 2020 (ud. 16 gennaio 2020), n. 6626) ha ricostruito con precisione l’intero sistema normativo che dovrebbe regolare i soccorsi in mare, individuando gli obblighi a carico delle navi soccorritrici e degli stati.
La Corte di Cassazione, con la decisione dello scorso febbraio, ha confermato “la valutazione del Giudice di Agrigento, che ha ritenuto non ci fossero i presupposti per convalidare l’arresto, eseguito in quel descritto contesto fattuale, poiché operante il divieto di cui all’art. 385 cod.proc.pen., è corretta. La verosimile esistenza della causa di giustificazione è stata congruamente argomentata. In questo ambito, il provvedimento ripercorre, necessariamente, le fonti internazionali (Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare, SOLAS- Safety of Life at Sea, Londra, 1974, ratificata dall’Italia con la legge n. 313 del 1980; Convenzione SAR di Amburgo del 1979, resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994; Convenzione UNCLOS delle Nazioni Unite sul diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994), sia allo scopo di individuare il fondamento giuridico della causa di giustificazione, identificata nell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sia al fine di delinearne il contenuto idoneo a scriminare la condotta di resistenza. Proprio le citate fonti pattizie in tema di soccorso in mare e, prima ancora, l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare, norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento Io interno, in forza del disposto di cui all’art. 10 comma 1 Cost. – tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima -, sono il parametro normativo che ha guidato il Giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto della Rackete, in una situazione nella quale la citata causa di giustificazione era più che “verosimilmente” esistente. Nè si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale SAR di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. “piace of safety”).
Secondo la Corte di Cassazione “Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) allegate alla Convenzione SAR, dispongono che il Governo responsabile per la regione SAR in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Per l’Italia, il piace of safety è determinato dall’Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell’Interno. Secondo le citate Linee guida, «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12). «Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative». (par. 6.13)”.
Per la Corte di Cassazione, “Non può quindi essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave. Ad ulteriore conferma di tale interpretazione è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”.
Il Decreto interministeriale del 7 aprile ed il Covid-19
Il Decreto interministeriale del 7 aprile scorso stabilisce nel suo articolo 1 (ambito di applicazione) che “per l’intero periodo di stato di emergenza sanitaria nazionale derivante dalla diffusione del virus COVID-19, i porti italiani non assicurano i requisiti necessari per la classificazione e definizione di Place of safety (“liogo sicuro”), in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area SAR italiana”. La portata normativa del provvedimento non va oltre, perchè l’altro articolo del provvedimento, l’art. 2 (Disposizioni generali) si limita a stabilire i termini temporali di efficacia, che scatta “dalla data della sua adozione”, e che dunque non può avere effetto retroattivo, e “per la durata del periodo di emergenza sanitaria di cui alla deliberazione del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020”.
Appare davvero pretestuosa la motivazione del provvedimento adottato adesso dal capo della Protezione civile, sulla base del decreto interministeriale, secondo cui, tenuto contro della situazione di emergenza connessa alla diffusione del Coronavirus e dell’attuale “situazione di criticità dei Servizi sanitari regionali”, e dell’”impegno straordinario svolto dai medici e da tutto il personale sanitario per l’assistenza ai pazienti Covid-19, ” non risulta allo stato possibile assicurare sul territorio italiano la disponibilità di tali luoghi sicuri ( luoghi di sbarco sicuri, n. d.a.), senza compromettere la funzionalità delle strutture nazionali sanitarie,logistiche e di sicurezza dedicate al contenimento della diffusione del contagio e di assistenza e cura ai pazienti Covid-19″.
Per quanto si richiami la dichiarazione del 30 gennaio 2020 con la quale l’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) ha dichiarato la natura pandemica del COVID 19, non si rinviene ancora alcun caso di positività ai migranti soccorsi negli ultimi mesi dalle navi umanitarie nel Mediterraneo centrale, e non sembra comunque che tale tipo di argomentazione, seppure collegata alla dichiarazione dello stato di emergenza adottato dal governo italiano il 31 gennaio scorso, possa sospendere l’applicazione delle norme internazionali, europee ed interne che nella interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza, fino alla sentenza della Corte di cassazione dello scorso febbraio, ribadiscono l’obbligo degli stati di completare le operazioni di salvataggio da chiunque svolte, garantendo con la massima tempestività un luogo sicuro di sbarco. Per luogo sicuro di sbarco non si può intendere una nave traghetto messa a disposizione per contenere i naufraghi per un lungo periodo di quarantena, anche per i rischi di contagio che un ambiente così ristretto e privo di aria naturale potrebbe determinare, nella malaugurata ipotesi in cui anche uno solo dei naufraghi risultasse positivo al Covid-19.
Al comportamento dilatorio ed omissivo del governo nazionale si aggiunge infine la posizione del Presidente ( e non Governatore) della Regione Sicilia che invita il governo nazionale a respingere la nave Alan Kurdi dopo avere fatto trasbordare i naufraghi per il lungo periodo di quarantena su una nave che il Presidente Musumeci asserisce di avere già individuato. Ancora incerti, allo stato, dopo una settimana quasi dai soccorsi a nord delle coste libiche, i tempi del trasbordo e la destinazione finale dei naufraghi. La trattativa avviata da giorni con il governo tedesco inficia il tempestivo adempimento degli obblighi di soccorso da parte dello stato competente in quanto la nave soccorritrice ricade ormai sotto la sua piena giurisdizione. Una responsabilita che non può essere esclusa con un provvedimento del capo della Protezione civile o del Direttore del Dipartimento Libertà civili del Ministero dell’interno.
Rassegniamo questi elementi agli organi di informazione ed alle autorità politiche e giudiziarie perchè valutino la portata dei gravi inadempimenti degli obblighi di ricerca e soccorso in mare che si stanno configurando in questi giorni ,e contribuiscano ad accertare le responsabilità e ad impedire che in futuro tali eventi possano ripetersi con grave pregiudizio della vita umana. Se si dovesse accettare oggi un compromesso che assecondi la prassi di impedire alle navi private straniere, che operano soccorsi in acque internazionali, il transito nelle acque territoriali e lo sbarco in un porto sicuro italiano sarebbe la fine delle missioni di ricerca e salvataggio operate dalle ONG, anche di quelle battenti bandiera italiana, e ne deriverebbe, come si sta verificando, un aumento esponenziale degli sbarchi autonomi. Sbarchi “spontanei”. come vengono definiti, di migranti fuggiti dalla Libia in guerra che raggiungono le coste italiane, soprattutto Lampedusa, o che vengono soccorsi dalla Guardia di finanza quando sono entrati nel mare territoriale ( 12 miglia dalla costa). Si tratta di sbarchi molto più “pericolosi”, dal punto di vista sanitario, di quelli operati finora dalle ONG. e sarà altissimo il costo in termini di vite umane che queste nuove prassi di chiusura dei porti potranno comportare.
Ancora oggi oltre cento migranti in fuga dalla Libia sono arrivati a Pozzallo, finiranno in un centro di accoglienza di Ragusa, ed altre centinaia di persone, nei prossimi giorni, potrebbero raggiungere le coste siciliane, anche se hanno costretto all’impotenza le navi delle Organizzazioni non governative. Altri sono già periti in mare, per effetto delle decisioni di chiusura delle acque territoriali adottate da Malta dopo l’esempio fornito dall’Italia. Diversi barconi in queste ore attendono di essere soccorsi in zona SAR maltese ed il numero delle vittime potrebbe aumentare ancora.
Occorre che il governo nazionale, e poi il governo regionale, adottino un Piano sbarchi per dare soluzioni immediate all’accoglienza in quarantena dei numerosi migranti che continuano a sbarcare autonomamente sul territorio siciliano, piuttosto che accanirsi nel respingimento delle poche navi umanitarie che ancora soccorrono naufraghi nel Mediterraneo centrale. Le critiche del centrodestra , persino all’ordinanza adottata dal capo della Protezione civile, costituiscono l’ennesimo sciacallaggio che si ripete ancora in questi giorni. Occorre una diversa politica di accoglienza, che che non può definirsi certo “buonista”, ma che va nella direzione della tutela della salute pubblica e dei diritti fondamentali delle persone.
Migranti: Musumeci, trovata nave per la quarantena adesso tocca a Conte
“Una nave per la quarantena degli immigrati, capace di ospitare fino a 488 persone. L’abbiamo trovata: è la Motonave Azzurra della compagnia Gnv, dotata di protocollo sanitario per l’assistenza a bordo di casi di Covid-19 positivi, idonea quindi a garantire le condizioni sanitarie necessarie alla quarantena di sospetti contagi ed attrezzata anche per preparare i pasti giornalieri. Ecco la nostra soluzione, presidente Conte, non ci sono più alibi. Basta solo sottoscrivere il contratto. Ed è un compito del governo nazionale”.
Lo dichiara il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci.
“Non c’è più motivo – prosegue il governatore – di scaricare sulle strutture della Sicilia il peso organizzativo di collocare centinaia di persone immigrate, pronte a sbarcare nei prossimi giorni sulle coste siciliane, vittime di spregiudicati venditori di carne umana. La Sicilia non vuole vivere col Coronavirus la stessa drammatica esperienza della Lombardia: la gente ha paura, i sindaci hanno civilmente lanciato l’allarme, come faccio io da tre giorni. Evitiamo altra tensione sociale. I migranti che rischiano di annegare vanno soccorsi e messi in quarantena. Ma lo si faccia su una nave in rada. E anche presto”.
–Fabio
De Pasquale
Portavoce presidente
Regione Siciliana
Alan Kurdi: intervento per gestione migranti affidato al Dip. Immigrazione con supporto Croce Rossa
Provvedimento del Capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, su richiesta della ministra Paola De Micheli
12 aprile 2020 – Su richiesta della ministra delle infrastrutture e dei trasporti, Paola De Micheli, il capo della protezione civile, Angelo Borrelli, ha appena firmato un provvedimento con il quale si nomina il Dipartimento delle liberta civili e per l’immigrazione soggetto attuatore dell’intervento di gestione sanitaria, con il supporto per l’assistenza della Croce Rossa per i 156 migranti presenti sulla nave Alan Kurdi in prossimità delle acque territoriali nazionali. Questo intervento è coerente con le politiche del governo italiano sull’immigrazione e si è reso necessario a seguito del rifiuto, da parte della Alan Kurdi, di seguire la procedura per l’accoglienza nel proprio paese di bandiera che è la Germania. Il provvedimento prevede che venga individuata, con il supporto tecnico della Guardia Costiera, una nave sulla quale, nelle prossime ore, potranno essere trasferiti i migranti per la quarantena e i controlli da parte della Croce Rossa Italiana e delle autorità sanitarie locali. L’intervento di natura umanitaria non può avvenire con lo sbarco presso i porti italiani, a causa della forte pressione organizzativa e sanitaria, in questa fase emergenziale da covid-19. Pressione che renderebbe complesso affrontare l’accoglienza in piena sicurezza per i soccorritori e per le persone soccorse. Tale intervento avviene inoltre, nel pieno rispetto delle regole vigenti per gli italiani in Italia e per gli italiani che rimpatriano, nonché a seguito della Dichiarazione sui porti italiani ai sensi della convenzione di Amburgo.
AGGIORNAMENTO IMPORTANTE
Gli spagnoli di Aita Mari, usciti ieri pomeriggio dal porto di Siracusa, sono arrivati molto a sud di Malta ma ancora non hanno trovato nessuno dei tre barconi segnalati ieri. Uno di questi quasi certamente e’ affondato, tutto mentre i governi tenevano in porto le loro migliori unità di soccorso, come la Diciotti della Guardia costiera italiana, arrivata ieri a Catania. Una ferita che non sarà mai rimarginata, un anticipo della serie di stragi programmate che seguiranno nelle prossime settimane. Ai tempi del Covid 19 una vita spenta nel Mediterraneo vale quanto quella di chi viene lasciato soffocare senza avere accesso alla terapia intensiva o per mancanza di respiratori. Nel caso dei soccorsi in mare le navi di salvataggio ci sarebbero ma vengono tenute ferme per volontà politica e per ricatti incrociati. Non dimenticheremo i colpevoli di strage.
SMH
(@smhumanitario) ha twittato alle 8:35 AM on Lun, Apr 13, 2020:
UPDATE AITAMARI: after sailing a few hours ago from Syracuse in transit
to Spain, without a rescue and medical crew, she was informed of a boat adrift
with 47 people on board and she diverted her course to carry out the
search. We require URGENT assistance.
https://t.co/JECLW1ICze
(https://twitter.com/smhumanitario/status/1249587100233740289?s=03)
(AFP) “The European Border and Coast Guard Agency, commonly known as Frontex, reported to Agence France-Presse (AFP) that one of its planes would “take off [Monday] morning to search” for the boat. Frontex said in a statement that it was one of four boats it had spotted on Friday and Saturday. The agency said it had informed the authorities concerned – Italian, Maltese, Libyan and Tunisian. Contacted by AFP, the Maltese authorities and the Italian coastguard did not react.”
Nella mattina di lunedì 13 aprile la nave umanitaria dei Paesi Baschi AITA MARI raggiunge una delle imbarcazioni che da giorni avevano richiesto soccorso, soccorre sei persone che hanno perso conoscenza e rimane in attesa di autorizzazione ad effettuare il trasbordo delle altre, un’autorizzazione che da La Valletta non è ancora arrivata, mentre le unità navali italiane e maltesi sono rimaste ferme in porto. Un’aereo di Frontex sorvola la zona, non per soccorrere ma per raccogliere prove contro i soccorritori, come in altre precedenti occasioni. Mentre tutti attaccano le Organizzazioni non governative e la ALAN KURDI rimane bloccata al largo di San Vito (Trapani) in attesa che i 149 naufraghi soccorsi da una settimana possano finalmente toccare terra, a Capo Passero di Sicilia, estrema punta meridionale dell’isola, si verifica un altro sbarco autonomo. Delle quattro imbarcazioni segnalate da giorni in situazione di grave distress nel Canale di Sicilia, a quest’ora (ore 12) ne manca forse ancora una, che potrebbe essere quella che ha fatto naufragio ieri, sempre che negli stessi giorni dalla Libia non ne siano partite ancora altre.
Per alcuni dei migranti soccorsi dalla AITA MARI potrebbe essere già troppo tardi.