di Fulvio Vassallo Paleologo
Le responsabilità di Malta nei respingimenti in alto mare e gli accordi con i libici sono noti da anni. Ancora nel maggio dello scorso anno denunciavamo come tra Italia, Malta ed il governo di Tripoli fossero già in atto accordi che potevano portare a respingimenti collettivi di migranti ed a trattamenti inumani o degradanti, in violazione delle Convenzioni internazionali, oltre che dei principi minimi di umanità. A novembre 2019 le intese intercorrenti tra La Valletta, Tripoli a la sedicente Guardia costiera libica erano già ampiamente esposte dal Times of Malta e dal quotidiano italiano La Repubblica. E non erano mancate le critiche anche da parte di un insigne giurista maltese, in precedenza giudice della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. In realtà quelle intese erano la conseguenza degli accordi conclusi tra le autorità italiane ed il governo di Tripoli in base al Memorandum d’intesa siglato 1l 2 febbraio 2017 e poi ratificato da un “vertice” dell’Unione Europea proprio a Malta, il giorno successivo.
Non si può dimenticare però che le attività di push back (respingimento) operate dai maltesi in alto mare sono avvenute anche a meno di 30 miglia a sud di Lampedusa, più vicino ai porti italiani che a La Valletta, e che l’Italia, oltre ad avere bloccato le Ong, anche con i fermi amministrativi, ha ritirato le sue navi di soccorso più efficienti, come la Diciotti e la Gregoretti, che prima effettuavano attività Sar di ricerca e salvataggio in acque internazionali, in coordinamento con le Ong, proprio nella stessa zona a sud delle Pelagie nella quale adesso intervengono i maltesi. Ma in Italia tutto questo si deve nascondere e fa comodo concentrare tutte le responsabilità su Malta. Si continua a giocare in questo modo con la fuga dalle responsabilità che negli anni è costata altre vittime, come quelle della strage dell’11 ottobre 2013, per la quale è ancora aperto un processo presso il Tribunale di Roma. Il ministro dell’interno Lamorgese arriva al punto di sostenere che la responsabilità dei soccorsi dovrebbe ricadere sui paesi di bandiera delle navi soccorritrici, anche quando questi paesi si trovano oltre l’Oceano Atlantico. Una tesi peregrina, sconfessata dalla Corte di Cassazione con una limpida sentenza del 20 febbraio di quest’anno, ma che continua a legittimare ritardi ed omissioni di soccorso. Eppure su queste basi si sta trattando da mesi con le Organizzazioni non governative che cercano di ottenere nuove autorizzazioni per tornare ad operare nel Mediterraneo centrale.
Non si può poi dimenticare che il governo di La Valletta ha adottato un provvedimento di chiusura dei suoi porti, dichiarati ” non sicuri” due giorni dopo che analogo provvedimento era stato adottato il 7 aprile scorso, con un decreto interministeriale del governo Conte, firmato anche dal ministro della salute Speranza. Malta e’ un crocevia di affari loschi con la Libia, ma in Italia ed a Bruxelles sono in tanti che si nascondono dietro le responsabilità del governo maltese. Se uno stato non rispetta gli obblighi di ricerca e soccorso fino allo sbarco in un posto sicuro, imposti dal diritto internazionale, questo non significa che gli stati titolari di zone Sar limitrofe possano abbandonare i naufraghi al loro destino, quando invece potrebbero intervenire tempestivamente. Chiunque viene a conoscenza di un barcone in situazione di distress (grave pericolo) in acque internazionali ha l’obbligo di attivarsi immediatamente, se l’autorità competente in base alla ripartizione delle zone SAR riconosciute dall’IMO non interviene, senza restare a guardare dall’alto, in attesa che le trattative tra i governi si concludano. Come sono del tutto ingiustificate e costituiscono trattamenti inumani e degradanti le modalità di quarantena imposte dai maltesi a decine di naufraghi trattenuti per settimane, nelle acque internazionali di fronte La Valletta, a bordo di barconi adatti soltanto a gite giornaliere.
I maltesi non possono considerare come “sicuri” i porti della Tripolitania contesi dalle milizie nel pieno di una cruenta guerra civile. Anche il governo Serraj ha dichiarato “non sicuri” i propri porti, e del resto aumentano ogni giorno le testimonianze dei naufraghi che raccontano a quali violenze sono andati incontro, dopo essere stati riconsegnati alle milizie libiche.
Le intese tra Roma, Tripoli e La Valletta si sono evidentemente incrinate, per lo stato di guerra civile in Libia e per la pressione dell’opinione pubblica ( seguita dalla politica) sovranista, che produce inevitabilmente scontro tra gli stati anche all’interno dell’Unione Europea. Lo scontro in corso con l’Italia è evidente e si conferma con l’uscita di Malta dall’operazione IRINI di Eunavfor Med a guida italiana che avrebbe dovuto bloccare il traffico di armi verso la Libia. Una politica basata su ricatti incrociati. Ma tutto questo non deve distogliere dalle gravi responsabilità italiane ed europee per i ritardi che si registrano nelle operazioni SAR nel Mediterraneo centrale. Ritardi che possono costare la vita o il respingimento in Libia.
Ancora in queste ore il rifiuto delle autorità italiane che non indicano un porto di sbarco sicuro alle persone soccorse domenica 17 maggio da un peschereccio maltese potrebbe avere come conseguenza il loro respingimento collettivo in Libia, come quello che i maltesi hanno operato il 14 aprile scorso ( strage di Pasquetta), con vittime e persone finite nel campo lager di Al Triqqa a Tripoli. Come riferiva ieri Repubblica, senza evidenziare però le responsabilità italiane e gli accordi tra il nostro governo, il governo maltese ed il governo di Tripoli. L’Italia continua a mantenere gli accordi conclusi con Serraj il 2 febbraio 2017, rinnovati proprio all’inizio di quest’anno. Ed è la principale responsabile del riconoscimento di una vasta zona di ricerca e salvataggio “libica”, registrata nel giugno del 2018 da parte dell’IMO, mentre è sempre più evidente che il governo di Tripoli, oggi più che mai, non ha i mezzi per garantire in questa area una effettiva attività di ricerca e salvataggio.
Come ha rilevato l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) “Nonostante le circostanze estremamente difficili che devono affrontare attualmente molti paesi a causa del COVID-19, la protezione delle vite e dei diritti umani fondamentali deve rimanere in prima linea nel nostro processo decisionale. Il salvataggio in mare è un imperativo umanitario e un obbligo ai sensi del diritto internazionale. I problemi legittimi di salute pubblica possono essere affrontati attraverso la quarantena, i controlli sanitari e altre misure. Tuttavia, il salvataggio ritardato o l’incapacità di sbarcare le barche in pericolo mettono in pericolo la vita. Un porto sicuro per lo sbarco dovrebbe essere fornito senza indugio, insieme a un rapido accordo su come condividere la responsabilità tra gli Stati per l’hosting delle persone una volta raggiunta la sicurezza sulla terra ferma. A causa del conflitto in corso in Libia, nonché della detenzione ordinaria di migranti sbarcati e richiedenti asilo, che spesso affrontano condizioni di sovraffollamento e insalubri e altre preoccupazioni in materia di diritti umani, l’UNHCR ribadisce che nessuno dovrebbe essere respinto in Libia dopo essere stato salvato in mare.“
Occorre che il governo italiano rimuova la censura su quanto avviene in Libia e nel Mediterraneo centrale, con comunicati ufficiali che siano attendibili. Deve essere cancellata la finzione di una SAR libica. Vanno sospesi gli accordi di cooperazione operativa con la sedicente guardia costiera “libica”, a partire dal ritiro della missione NAURAS della Marina militare italiana presente nel porto di Abu Sittah a Tripoli (nell’ambito del dispositivo Mare Sicuro).
Si deve preparare una grande missione umanitaria a livello europeo per soccorrere chi è costretto ancora oggi ad imbarcarsi su gommoni fatiscenti ed a pagare i trafficanti per fuggire alla guerra civile in Libia, ai bombardamenti, alle torture, all’ arruolamento forzato. Ma soprattutto, dopo il blocco dei pochissimi canali umanitari che erano stati aperti in passato, occorre procedere all’evacuazione di tutti i migranti in transito che si trovano in questo momento intrappolati in Libia, la maggior parte dei quali vi era giunta come “migranti economici” ma che oggi sono comunque persone gravemente vulnerabili bisognose di protezione internazionale. Come ha affermato Don Mussie Zerai, “Di fronte a tutto ciò che sta accadendo in Libia nessuno può voltarsi dall’altra parte, nessuno può dire ‘non sapevamo“.
A nostro avviso non sarà certo Malta a poter risolvere questi problemi. Condividiamo l’appello di Don Mussie Zerai: “ Ogni migrante o profugo morto in Libia oggi lo avremo sulle nostre coscienze. Italia, Francia, Germania facciano lo sforzo per ottenere un corridoio umanitario per l’evacuazione di queste persone in trappola”
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