di Domenico Gallo
Il 20 maggio sono decorsi cinquant’anni dall’approvazione dello Statuto dei diritti dei lavoratori che, non a caso, si intitolava “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”. L’oggetto principale della legge riguardava proprio la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori e della libertà dell’attività sindacale. Con esso, la Costituzione riuscì a superare lo steccato dei poteri privati e a penetrare in territori dai quali era stata lungamente e tenacemente esclusa.
Lo Statuto si rivolgeva al settore principale dell’universo del lavoro, quello del lavoro subordinato, però poneva dei principi che superavano tale ambito, costituiva un punto di orientamento nei rapporti economico sociali mirante al riconoscimento della tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art.35Cost), quale espressione della centralità della persona umana. Insomma il valore insuperabile dell’elemento umano che rende il lavoro un fattore di produzione non assimilabile ad una merce.
Non si trattò di una riforma indolore: essa incise con il bisturi sul bubbone di pratiche discriminatrici dure a morire e segnò l’avvento di una stagione di maggiori diritti, maggiori protezioni, migliori condizioni di vita per l’homofaber.
Da molto tempo questa stagione si è rovesciata per vicende relative alle modalità di sviluppo della globalizzazione, incentrata su un insensato modello di competizione al ribasso fra gli ordinamenti. La libertà di circolazione dei capitali, la delocalizzazione delle attività produttive alla ricerca delle condizioni ambientali di miglior favore per gli investitori, l’utilizzo esasperato della tecnologia per sostituire il lavoro umano, l’eliminazione progressiva dei vincoli che la politica utilizzava per mediare il conflitto economico-sociale, le privatizzazioni e l’affermazione della incontestabile egemonia del mercato sulla società, hanno portato ad una progressiva mortificazione dell’elemento umano.
“Ad ogni innovazione tecnologica – ha scritto Vittorio Emanuele Parsi (Vulnerabili: come la Pandemia cambierà il mondo) – ad ogni modifica legislativa, ad ogni peggioramento delle condizioni contrattuali, ad ogni richiesta di maggiore impegno, maggiore dedizione, maggiore flessibilità, maggiore velocità, maggiore spirito di adattamento che veniva richiesto all’homo faber, sono corrisposti minori compensi, minori diritti, minori protezioni, minore vita per l’homo vivens.”
A poco a poco la tutela del lavoro umano incentrato sul modello del lavoro subordinato è stata ridimensionata svuotando il contenitore del lavoro a tempo indeterminato attraverso l’invenzione di una miriade di forme contrattuali a titolo precario, fino alla quasi totale liberalizzazione del lavoro a tempo determinato. Alla fine, grazie al Job’sAct di Renzi, è stata rimossa anche la garanzia che teneva in piedi tutto l’impianto dei diritti stabiliti dallo Statuto dei lavoratori attraverso la sostanziale cancellazione dell’art. 18, la norma che reprimeva il licenziamento illegittimo, assicurando un regime di cosiddetta stabilità reale.
Il 20 maggio ricorre anche il XXI anniversario dell’assassinio del giuslavorista Massimo D’Antona che nel 1979 pubblicò un’importante monografia dedicata all’art. 18, di cui vogliamo ricordare queste parole:
“…E’ lecito affermare che la tutela reintegratoria costituisce l’unica risposta possibile ai bisogni di tutela che l’abuso del potere dei licenziamenti mette in evidenza… Retrocedere, anche surrettiziamente, verso un sistema di garanzia risarcitoria, restituendo all’imprenditore l’ultima parola nella vicenda del licenziamento …costituirebbe un sintomo grave …una sconfitta per il movimento operaio, ma, ancor più, una sconfitta per la civiltà giuridica di questo Paese“.
Oggi di fronte ai disastri provocati in tutto il mondo dalla pandemia, dobbiamo prendere atto che il modello economico sociale e produttivo della globalizzazione fondato sulla ricerca del profitto e dell’efficienza a qualunque costo si è dimostrato vulnerabile proprio a partire dal fattore critico per definizione: quello umano. Il sistema non si è inceppato per un virus informatico, ma per un virus biologico che ha colpito l’anello debole: l’uomo. I diritti del capitale hanno dovuto cedere di fronte all’esigenza di tutela del fattore umano ed è emerso anche il valore insostituibile di lavori che la macchina produttiva aveva sempre considerato di scarto: dai riders agli infermieri.
Se vogliamo salvarci dobbiamo dare di nuovo valore al fattore umano, rovesciando quel processo che ha trasformato il lavoro in merce.