di Fulvio Vassallo Paleologo
Dopo la relativa ripresa delle partenze dalla Libia, sempre assai ridotte rispetto agli anni dal 2013 al 2017, si sono moltiplicati i casi di abbandono dei naufraghi in mare, di respingimento verso la Libia e di dirottamento dei barconi dalla zona SAR maltese verso quella italiana. Da ultimo il primo ministro maltese Abela ha concluso un nuovo Memorandum d’intesa con il governo di Tripoli, che vede al centro della futura collaborazione le attività di contrasto dell’immigrazione “illegale”. Si tenta di fornire così una base normativa alle operazioni illegali di respingimento verso le coste libiche operate da una flottiglia di pescherecci che rispondono agli ordini del governo di La Valletta, come lo stesso Abela ha ammesso.
Continua intanto il trattenimento illegale di centinaia di migranti soccorsi nel Mediterraneo centrale ed intrappolati a bordo di quattro navette per escursioni giornaliere della società privata Captain Morgan nel banco ormeggi offshore appena fuori dalle acque territoriali maltesi. Una violazione reiterata delle Convenzioni internazionali, secondo le quali le azioni di salvataggio devono concludersi nei tempi più rapidi con lo sbarco a terra in un porto sicuro, che si traduce in trattamenti inumani e degradanti. Malta del resto non ha mai accettato gli emendamenti delle Convenzioni di diritto del mare approvati nel 2004, che stabilivano per i paesi titolari di una zona SAR ( ricerca e salvataggio) gli obblighi di garantire un porto di sbarco sicuro.
Da settimane, mentre si moltiplicano gli sbarchi autonomi, a dimostrazione che non erano certo le ONG, oggi bloccate con espedienti amministrativi, se non con processi penali, si ripete che la responsabilità delle azioni contrarie al diritto internazionale e delle vittime che ne sono derivate sulle rotte del Mediterraneo centrale, in particolare nella notte tra il 13 ed il 14 aprile scorsi, sarebbe da attribuire esclusivamente alle autorità maltesi, senza considerare dati reali inconfutabili che fanno emergere evidenti responsabilità del governo italiano e dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne FRONTEX. Da ultimo si riporta l’attenzione sul trattamento inumano e sulle uccisioni di migranti in Libia, senza riconnettere questi gravissimi fatti alla perdurante collaborazione tra le autorità e gli assetti militari europei con le autorità libiche e con la sedicente guardia costiera “libica”.
La intensificazione della collaborazione tra Malta ed il governo di Tripoli e la dichiarazione delle autorità di La Valletta seguono sempre analoghi passi compiuti dal governo italiano con la ratifica della Commissione e del Consiglio dell’Unione Europea, che affidavano a Frontex, anche in violazione del Regolamento n.656 del 2014 compiti di law enforcement (contrasto dell’immigrazione illegale) prevalenti rispetto agli obblighi di ricerca e soccorso pure imposti dallo stesso Regolamento, ma attenuati con il Regolamento n.1624 del 2016, e con le più recenti decisioni del Consiglio alla fine del 2019, che rinforzava i ruoli di Frontex nelle attività di contrasto, senza richiamare la doverosità degli obblighi primari di salvaguardia della vita umana in mare.
Certo ci si può indignare per il recente Protocollo d’intesa concluso tra Abela e Serraj nei giorni scorsi a Tripoli, ma non si può dimenticare che il governo italiano ha rinnovato il Memorandum d’intesa del 2017 con le stesse autorità di Tripoli anche se era ormai evidente il ruolo di alcune milizie che si scambiavano a seconda delle circostanze la divisa dei guardiacoste con gli abiti dei trafficanti di esseri umani. Il caso Bija non ha destato nessun allarme in Italia, ne ha sollecitato iniziative della magistratura, e solo in questi giorni si scoprono le torture inflitte dai migranti da uomini che erano riconducibili a quel personaggio, e dunque a quegli accordi. Il Memorandum d’intesa stipulato dall’Italia con Serraj il 2 febbraio 2017 e poi ratificato il giorno successivo in una conferenza europea proprio a Malta, riprende i contenuti del Protocollo operativo concluso nel dicembre del 2007 dal governo Prodi con Gheddafi, poi confermato nel Trattato di amicizia tra Italia e Libia concluso da Berlusconi nell’agosto del 2018, e ribadito dal governo Monti con il ministro dell’interno Cancellieri nel 2012.
Fino al 2017, anno del Codice di condotta Minniti, che aveva criminalizzato le attività di ricerca e soccorso delle ONG fino ad allora svolte in sinergia con le autorità italiane, i porti di sbarco dei naufraghi erano esclusivamente italiani, anche nel caso di soccorsi operati da navi appartenenti alle missioni Triton e poi Themis di FRONTEX, mentre da quell’anno, e soprattutto dalla infausta creazione di una zona SAR “libica” fortemente voluta dall’Italia, si registrava un aumento dei casi di abbandono in mare ed aumentavano i conflitti di competenza tra gli Stati. In particolare, alcuni Stati come l’Italia pretendevano di ottenere dall’Unione Europea la garanzia di una redistribuzione dei naufraghi prima che gli stessi fossero portati a terra ed utilizzavano i corpi dei migranti intrappolati a bordo dei mezzi di soccorso ( sia privati che della Marina, come nei casi Diciotti e Gregoretti) come arma di ricatto nei confronti dell’Unione Europea per accelerare la distribuzione su scala europea.
Quanto sta avvenendo oggi nel Mediterraneo centrale, dalle pratiche di indebito trattenimento a bordo di navi private, ai casi di abbandono in mare o di respingimento in Libia, ed i trattamenti disumani e degradanti ai quali sono sottoposti i migranti rinchiusi nei centri di detenzione governativi o nelle “connecting house” in mano ai trafficanti, è frutto di una politica estera che il nostro paese, con l’avallo dell’Unione Europea, persegue in piena continuità nei rapporti con le diverse autorità libiche che si sono succedute nel tempo, da un governo all’altro. Una politica che è stata confermata fino al più recente decreto interministeriale del 7 aprile scorso che dichiara i porti italiani “non sicuri” a causa dell’emergenza del sistema sanitario per effetto del COVID-19, un provvedimento che appena due giorni dopo dalla sua adozione è stato replicato negli identici termini dal governo di La Valletta. Appare del resto evidente come la piccola isola-Stato non possa reggere in alcun modo gli effetti devastanti del provvedimento adottato dal governo italiano. Come non poteva reggere del resto la chiusura dei porti frutto dei provvedimenti “ad navem” dell’ex ministro dell’interno Salvini. Provvedimenti ai quali si è data copertura con il decreto sicurezza bis, nell’ estate del 2019, che l’attuale governo non è stato ancora in grado di abrogare. Malgrado gli impegni assunti da diversi esponenti della maggioranza.
Appaiono per questa ragione solo il tentativo di trovare un ennesimo alibi le risposte fornite dalla viceministro agli affari esteri Sereni ad una interrogazione sulle attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale. La viceministro non poteva ignorare né trascurare nella sua risposta come notoriamente Malta non garantisce un porto sicuro di sbarco a tutti i naufraghi soccorsi nella sua vasta zona SAR e dunque non poteva nascondere la responsabilità delle autorità italiane soprattutto nei casi che si sono verificati in questi ultimi mesi di barconi carichi di migranti in evidente situazione di distress ( che Malta non riconosce) che si trovano assai prossimi alle acque territoriali italiane ed alla cosiddetta zona contigua ( 24 miglia a sud di Lampedusa). La circostanza che uno Stato,come Malta, non assolva i doveri di ricerca e salvataggio stabiliti dalle Convenzioni internazionali non esonera i paesi titolari di zone Sar limitrofe dall’assunzione del coordinamento dei soccorsi a persone che, per effetto dei mancati interventi degli Stati responsabili, potrebbero fare naufragio.
Se si vuole davvero dimostrare il rispetto delle Convenzioni internazionali occorre revocare tutti gli accordi con un governo che non garantisce sui territori che controlla il rispetto dei diritti umani e promuovere tutte le iniziative possibili, anche presso il Tribunale internazionale del mare di Amburgo per la cancellazione della cosiddetta zona SAR “libica”. Si devono ripristinare nel Mediterraneo centrale missioni di ricerca e salvataggio di quelli che sono “boat people” e non barconi carichi di “clandestini”. La recente strage di bengalesi avvenuta in Libia, e c’è da dubitare che si sia trattato soltanto di una “vendetta privata”, dimostra come per quanto concerne le persone che fuggono da quel paese sia scomparsa ogni distinzione tra “migranti economici” e potenziali richiedenti asilo, come pure sembra riconoscere qualche tribunale italiano che riconosce il diritto alla protezione a cittadini bengalesi provenienti dalla Libia.
A livello europeo è sempre più urgente una azione che costringa FRONTEX ad operare nel pieno rispetto degli obblighi di ricerca e salvataggio imposti dal Regolamento n. 656 del 2014, ed a rendere pubbliche le proprie attività, ormai del tutto coperte dal segreto militare. Circostanza che rende pienamente autonoma ed assolutamente opaca la stessa agenzia FRONTEX, che dovrebbe invece rispondere agli indirizzi del Consiglio Europeo e della Commissione. Se per questi organismi la Libia attualmente non offre porti di sbarco sicuri, come osserva anche il Consiglio d’Europa, non si vede perché si deve consentire agli assetti aerei ancora operativi di Frontex, dopo il ritiro degli assetti navali, di prestare assistenza alle autorità libiche e di indirizzare le attività di intercettazione in mare, con il coinvolgimento sempre più frequente di unità mercantili che sono costrette ad operare sotto il controllo delle autorità di Tripoli.
Ma anche in questo caso sono evidenti le responsabilità italiane che mantengono attiva la missione della Marina militare Nauras presente dal 2018 nel porto di Tripoli, una missione che oltre a prestare assistenza tecnica alle motovedette tripoline, ha svolto attività di formazione e coordinamento della sedicente guardia costiera libica, anche dopo che sono emerse le collusioni tra i guardiacoste libici ed i trafficanti. Per queste ragioni, è, e sarà sempre più evidente, che il governo italiano non potrà nascondere le proprie responsabilità dietro le gravi violazioni delle Convenzioni internazionali, dai dirottamenti ai respingimenti collettivi ed ai trattenimenti arbitrari, operati dalle autorità maltesi.