di Mauro Seminara
Le notizie sui soccorsi ai migranti naufraghi del Mediterraneo centrale sembrano essere scomparse dalle scalette delle maggiori testate nazionali ed anche i naufragi trovano posto in pagina per puro caso. Talvolta solo perché c’è la foto di una tutina, con cui era vestita una bimba di pochi mesi trovata morta sulla spiaggia libica. Ma niente che possa intenerire redattori e lettori. Ben lontani ormai i tempi dell’indignazione globale per il bambino con la t-shirt rossa riverso faccia in giù sulla spiaggia. La foto scattata (in alto a destra) dalla giornalista turca Nilufer Demir al corpo del bambino la cui famiglia, di etnia curda siriana, aveva tentato di raggiungere la Grecia, aveva fatto il giro del mondo e per un breve momento sembrò che il mondo volesse trovare una soluzione alla crisi migratoria. Cinque anni dopo l’indignazione mondiale per la morte del bambino a poche miglia dalla Turchia, la bambina che il Mar Mediterraneo ha restituito agli occhi del mondo dopo un naufragio a poche miglia dalla Libia non ha sortito alcun effetto nei cuori di chi, evidentemente, ormai si indigna a comando. Ed il pulsante di comando del “modo indignazione” sembra essere ormai nelle mani dei media che trattano queste notizie con la sufficienza del caso, e del periodo politico.
Il precedente ed il silenzio
In questo contesto di silenzio e mezze notizie, assistiamo ad una parziale e provvisoria ripresa delle operazioni di soccorso umanitario nel Mediterraneo centrale. Una ripresa che mostra però qualcosa che non fa ben sperare, con un sinistro lato oscuro. Attualmente ci sono quattro navi di rispettive organizzazioni non governative ferme nei porti italiani. Due sono bloccate a causa di un fermo amministrativo a Palermo. Si tratta della Alan Kurdi e della Aita Mari, la prima tedesca e la seconda spagnola. Le due Ong avevano “osato” intervenire in soccorso di naufraghi durante il lockdown. In quel periodo si era fermata l’Italia, fatta eccezione per alcune categorie professionali, ma non si erano fermati i trafficanti libici. Alan Kurdi ed Aita Mari uscirono in mare per intervenire in aiuto di barche in evidenza di pericolo. La Aita Mari per giunta senza team di soccorritori a bordo per salvare una barca che nessuno voleva soccorrere pur trovandosi in gravissimo pericolo a breve distanza da Malta. Entrambe le navi arrivarono a Palermo dopo un difficile momento politico in cui prima venne firmato da quattro ministri un decreto ministeriale che negava il porto sicuro in Italia alle due Ong e poi venne invece noleggiata in “emergenza” una nave da impiegare per la quarantena dei migranti, senza avviso di pubblico interesse e senza pubblicazione di costi di noleggio.
Il lockdown delle Ong
Dopo il trasbordo in rada a Palermo dei naufraghi dalle due navi umanitarie alla “nave quarantena” Raffaele Rubattino, della Compagnia Italiana di Navigazione, le due Ong dovettero fermare le navi in rada per una quarantena di 14 giorni. Al termine del periodo di isolamento al largo, le due navi umanitarie ricevettero a bordo gli ispettori della Capitaneria di Porto che, dopo un lungo e capillare controllo, contestarono alcune defezioni in ordine alle attività di soccorso marittimo costantemente svolte e disposero il fermo amministrativo di entrambe le imbarcazioni. La Alan Kurdi, nave della Ong tedesca Sea Eye che porta il nome del bambino curdo siriano fotografato dalla giornalista turca Nilufer Demir, e la Aita Mari della Ong basca Salvamento Marittimo Humanitario, dai primi di maggio sono ferme nel porto di Palermo. Al termine del lockdown italiano per la pandemia di Covid-19, la Sea Watch 3 e la Mare Jonio sono state approntate per tornare in missione nel Mediterraneo centrale. Le due navi appartengono, rispettivamente, alle organizzazioni non governative Sea Watch, tedesca, e Mediterranea Saving Humans. Quest’ultima italiana come la bandiera che svetta sulla nave. Alla prima missione post-lockdown entrambe hanno soccorso naufraghi nel mare a nord della Libia. Ma non senza mostrare piccole anomalie nella tecnica di pattugliamento delle aree SAR in cui hanno sempre operato.
Caute procedure
La Sea Watch 3 e la Mare Jonio non si sono spinte più a sud di 30 miglia nautiche dalla costa della Libia. Eccezione, stando alla posizione indicata dalla Ong tedesca, un soccorso effettuato a 29 miglia dalla Libia. La Mare Jonio, in particolare, dopo una strana rotta, apparentemente priva di criterio di ricerca, si è spostata a Lampedusa per una burrasca – modesta – in arrivo. Le autorità dell’isola pelagica hanno accordato senza alcun problema l’ormeggio in porto, trattandosi di nave italiana senza naufraghi a bordo. La Sea Watch 3 invece è rimasta in area a pattugliare. Nel periodo di missione sono state segnalate svariate imbarcazioni su cui però le navi umanitarie non sembravano aver fretta di intervenire. Molti sono stati i respingimenti in Libia operati da assetti libici con la solita partecipazione di navi mercantili in prima battuta sul posto fino all’arrivo dei pattugliatori che furono italiani e degli aerei di Frontex che dall’alto ne segnalavano la posizione. In sole 24 ore sono stati fermati e ricondotti in Libia oltre 400 profughi di quella scena di guerra. Al termine delle rispettive missioni le navi avevano a bordo 211 naufraghi sulla tedesca e 67 sulla italiana. Due soccorsi, uno per nave, sono avvenuti a poche decine di miglia da Lampedusa. Poi è giunta l’ora del porto sicuro di sbarco, e sono arrivate le prime chiare evidenze di anomalie. La Sea Watch 3, mentre la Ong di appartenenza annunciava di aver chiesto un place of safety (luogo sicuro di sbarco) senza esito positivo, navigava con rotta sicura verso Pozzallo. Quando la nave è arrivata in prossimità delle acque territoriali italiane della Sicilia però ha virato e per parecchie ore si è tenuta in acque italiane passeggiando avanti e indietro al largo di Gela. Nel frattempo, la Mare Jonio ha preso a navigare dritto su Pozzallo senza alcun annuncio di place of safety assegnato e giunta in area portuale ha atteso solo l’orario assegnato dall’autorità portuale per ormeggiare e sbarcare i naufraghi.
Un place of safety che sembrava prenotato
La Mare Jonio, nel dirigersi verso Pozzallo, è passata ad appena sei miglia nautiche da Lampedusa. Anche la Sea Watch 3 si trovava a sud di Lampedusa quando ha effettuato il suo terzo soccorso. Nessuna delle due navi però ha preso in considerazione il porto sicuro più vicino: Lampedusa. Come se entrambe le organizzazioni non governative sapessero già dell’assegnazione di place of safety italiano, ma diverso da quello pelagico. Il risultato è noto ed ha visto la Mare Jonio sbarcare a Pozzallo e la Sea Watch 3 a Porto Empedocle. Ma dal momento dell’approdo in porto si sono verificate le chiare differenze del caso. Alla Mare Jonio sono state riconosciute, come recitava un lancio dell’agenzia nazionale di stampa AGI, “protocolli più stringenti – seguiti dall’equipaggio – che non renderebbe necessaria la quarantena“. Così, l’indomani il sindaco di Pozzallo riceveva in Comune membri del team Mediterranea (vedi foto in alto) esentati dall’obbligo di quarantena mentre andavano in isolamento Covid presso l’hotspot locale i 67 naufraghi che questi avevano soccorso. Diversa la procedura per la Sea Watch 3 che dopo lo sbarco a Porto Empedocle, travagliato anche a causa – da quel che abbiamo appreso da fonti direttamente coinvolte nell’operazione – dell’assenza di dettagli sullo stato dei naufraghi all’ingresso in porto, ha visto l’esecuzione di un tampone per uno dei 211 migranti e dopo l’esito negativo e lo sbarco per il trasferimento sulla “nave quarantena” Moby Zazà la consegna di quarantena per l’intero equipaggio della nave umanitaria. La consegna di isolamento a bordo, in rada per 14 giorni, come se tradisse le aspettative, ha fatto sì che dalla Ong partisse un tweet con accusa di discriminazione: “Non ne comprendiamo l’applicazione discrezionale solo al nostro caso, visto che ci siamo attenuti a un rigoroso protocollo di prevenzione”.
Stringenti procedure e diversi protocolli
Su una barca come la Sea Watch 3, 50 metri di lunghezza per 12 di larghezza con 211 persone a bordo oltre l’equipaggio, è difficile comprendere come si possa mantenere un protocollo di sicurezza. Soprattutto partendo dal momento del soccorso in mare, circostanza nella quale la sicurezza è improntata alla salvaguardia della vita umana durante il trasbordo più che all’attenzione circa il contatto fisico protetto da eventuale contagio. Ma è vero che questo momento è comune anche alla Mare Jonio, se pur di pressoché pari stazza di nave – 37 metri di lunghezza per 9 di larghezza – ma con circa 150 persone in meno a bordo. Se tra le due navi umanitarie andate insieme in missione e tornate insieme ma con porti e conseguenze diverse risultano delle disparità di trattamento, queste appaiono ancor più evidenti nel raffronto con le due navi ferme per ragioni amministrative a Palermo. Non risulta, fino a questo pomeriggio, che la Mare Jonio e la Sea Watch 3 abbiano ricevuto ispezioni tecniche a bordo e quindi sembra che nessuna delle due navi subirà il fermo amministrativo imposto alla Alan Kurdi ed alla Aita Mari. Per quanto assurdo, verrebbe da pensare che tra le Ong ed il governo italiano possa esserci una sorta di accordo con un “codice di condotta” da rispettare e che le Ong che sono andate in mare durante il lockdown non lo abbiano rispettato. Ma sarebbe un gravissimo paradosso per delle organizzazioni non governative che salvano vite in mare. Paradossale anche l’impiego della nave quarantena Moby Zazà, ferma in porto per prendere a bordo 211 persone che, dopo essere sbarcate dalla Sea Watch 3, sono state condotte a bordo di pullman che hanno percorso poco più di 200 metri per arrivare davanti il punto di imbarco della nave. Un trasferimento via terra, mediante pullman, per un isolamento a bordo di una nave da un milione di euro al mese dopo un passaggio in banchina ed uno su pullman. Pare che il nonsense sia di casa in Italia, e forse anche in mare.