di Domenico Gallo
Ormai è giunta al termine una breve ma intensa campagna elettorale, il 20 e 21 settembre saremo chiamati alle urne per approvare o respingere la riforma che modifica gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione al fine di ridurre il numero dei parlamentari: da 630 a 400 alla Camera dei Deputati, da 315 a 200 al Senato. Ormai tutti gli argomenti sono stati sviluppati, il dibattito pubblico ha fatto emergere il vuoto di motivazioni a base di questa riforma che affonda la sua possibilità di successo esclusivamente sul sentimento antipolitico di un’opinione pubblica che ha perso ogni fiducia nei meccanismi della democrazia rappresentativa e si sente espropriata di ogni potere da un ceto politico percepito come una casta.
Il malessere della democrazia in Italia viene da lontano. Sullo sfondo c’è il fallimento dei partiti che hanno perduto del tutto la funzione di canale di partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica e si sono trasformati in satrapie, strutture di potere autoreferenziali che dominano il Parlamento, escludendo i cittadini da ogni potere di scelta dei loro rappresentanti.
Se la malattia della democrazia rappresentativa è reale, la cura proposta l’aggrava anziché mitigarla.
Coloro che hanno propugnato la riforma, in realtà celebrano l’umiliazione del Parlamento e la presentano come un grande successo per il popolo italiano. Dietro lo show delle poltrone tagliate in piazza c’è il messaggio che occorre dimagrire un ente almeno parzialmente inutile, che grava sulle tasche dei cittadini. Tagliare il numero dei parlamentari, tuttavia, non è solo una questione di numeri o di costi. Si tratta di una riforma destinata ad incidere sull’organizzazione della rappresentanza attraverso la quale si esprime e si realizza il principio fondamentale della Repubblica secondo cui la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e che attribuisce al Parlamento un ruolo centrale nel nostro sistema democratico.
Alterando il rapporto fra cittadini e parlamentari (un Deputato ogni 151.000 abitanti, un Senatore ogni 303.000 abitanti) , si incide sulla rappresentanza, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Aumenta la distanza fra rappresentato e rappresentante (anche in senso fisico perché i Collegi diventeranno molto più estesi) e viene ulteriormente sacrificato il pluralismo, abbassando il grado di potenziale identificazione del rappresentato con il rappresentante.
Il taglio dei parlamentari sommato alle norme elettorali in vigore restringe, specialmente in Senato, la capacità di rappresentare i cittadini, i territori, le posizioni politiche esistenti nel paese, creando per di più squilibri tra le aree territoriali a parità di popolazione.
Di fronte al disastro umano, economico, occupazionale e sociale provocato dalla pandemia e alla gravità dei problemi che il popolo italiano si trova ad affrontare in questo momento storico e all’esigenza di un grande sforzo di ricostruzione simile a quello che il nostro Paese ha dovuto affrontare all’uscita dalla seconda guerra mondiale, che vantaggi ne trarremo da un così drastico taglio di coloro che dovrebbero rappresentare il popolo italiano in Parlamento e nei confronti del Governo?
Avere meno rappresentanti (o non averne proprio come succederà alle minoranze) ci consentirà di far sentire meglio la nostra voce quando chiederemo giustizia sociale, investimenti, distribuzione equa delle risorse, un lavoro e una vita decente per tutti?
In realtà il tempo della crisi è il tempo in cui sarebbe necessario riannodare il rapporto fra i cittadini e la rappresentanza parlamentare, ci sarebbe bisogno di più rappresentanza, non di meno rappresentanti. Ci sarebbe bisogno di restituire ai cittadini il potere di scegliersi i propri rappresentanti, anziché diminuirli. Indebolire il Parlamento non si riflette solo sulla funzione legislativa ma anche sulla funzione di controllo e di indirizzo dell’attività del Governo. Questa funzione che si esercita attraverso interrogazioni, interpellanze e mozioni (atti di sindacato ispettivo), postula la necessità di un rapporto diretto fra il rappresentante ed i territori, che la riforma, invece, rende ancora più evanescente.
Poiché si discute di sovranità, adesso l’ultima parola spetta al soggetto titolare della sovranità: il popolo. Il popolo rimane ora l’ultimo depositario della legittimità costituzionale e l’ultima risorsa, l’ultima istanza in grado di salvaguardare la tenuta della democrazia rappresentativa nel nostro paese.
Il referendum costituzionale attribuisce ad ogni cittadino la funzione di legislatore costituzionale: ogni cittadino con il suo voto è chiamato a “scrivere” la Costituzione. A differenza delle elezioni politiche dove il voto del singolo non conta (quasi) niente e può andare anche disperso se il partito scelto non supera le soglie di sbarramento, nel referendum che si svolgerà il 20 e 21 settembre, ogni voto, conta, ogni voto può fare la differenza.
Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo! E’ l’invocazione che Shakespeare mette in bocca al Re Riccardo III che, sconfitto nella battaglia di Bosworth Field, cerca disperatamente un cavallo per sfuggire alla morte. Parafrasando Riccardo III, potremmo dire: un voto, un voto No, per il nostro regno, anzi per la nostra Repubblica!
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