di Domenico Gallo
Un anno fa, quando ci siamo scambiati gli auguri di fine d’anno scrutavamo con trepidazione l’avvento del nuovo anno, combattuti come sempre, fra speranze e incertezze e l’attesa di una vita migliore. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare la tempesta che stava per colpirci e già ruggiva alle nostre porte. Lo stupore è stato il sentimento più diffuso quando il 9 marzo (quasi) tutte le attività sono state fermate e noi ci siamo trovati chiusi nelle nostre case, sperimentando una condizione di isolamento che non avevamo mai vissuto, né mai immaginato. La nostra generazione che non ha mai conosciuto la guerra se non attraverso i racconti dei nostri padri o dei nostri nonni, si è trovata improvvisamente immersa in una situazione disastrosa paragonabile soltanto ad un tempo di guerra.
Non era mai accaduto, neanche durante l’ultima guerra che venissero chiuse tutte le scuole a livello nazionale, che venissero chiusi tutti i bar e i ristoranti, che venissero chiuse tutte le chiese e non si celebrasse più messa, che un regime di isolamento simile agli arresti domiciliari (con facoltà per alcuni di recarsi al lavoro) venisse imposto a tutta la popolazione italiana.
Abbiamo reagito con disciplina e pazienza, accogliendo la fine del lockdown nel corso del mese di maggio, come l’annunzio di una liberazione. Che purtroppo non c’è stata. Sono emersi i malumori generati dall’immenso disagio economico-sociale, che le robuste iniezioni di liquidità effettuate con i provvedimenti finanziari d’emergenza solo in minima parte hanno potuto attenuare. Quando la pandemia si è fatta beffe delle misure di contenimento impiantate a fasi alterne un po’ dappertutto e ha ripreso la sua corsa, in Europa e nel resto del mondo, costringendoci ad adottare nuove misure restrittive, grande è stata la delusione, la stanchezza, la rabbia alimentata dalla cacofonia istituzionale e dallo spettacolo squallido di un ceto politico chiuso nei giochi di palazzo, incapace di costruire la necessaria solidarietà contro il dolore.
L’incertezza è divenuta il segno del tempo che stiamo vivendo, un tempo di insidie e di precarietà dei destini individuali e dell’orizzonte collettivo. Noi arriviamo alla svolta dell’anno nuovo sospesi tra un passato a cui non si può tornare, un presente oscuro e un futuro che non sappiamo immaginare. Occorre discernere nella situazione che stiamo vivendo gli aspetti di speranza da quelli mortiferi. Oggi più che mai abbiamo bisogno che la politica faccia delle scelte cruciali. Abbiamo bisogno di istituzioni collettive robuste che costruiscano coesione e solidarietà, che attivino cooperazione sul piano interno e internazionale perché nessuno si salva da solo. Il confronto fra la vita e la morte si gioca anche sul piano politico. La politica può scegliere una strada mortifera oppure può affrontare le sfide globali (epidemie, inquinamento, cambiamenti climatici) facendo ricorso ad una superiore consapevolezza dell’unità del genere umano.
“Pur nelle mille contraddizioni di questo tempo infame, – ha scritto il Presidente dell’ANPI Gianfranco Pagliarulo – sappiamo che dopo la notte, dopo ogni notte, sorge l’alba. Non solo l’alba della scomparsa del virus e del ritorno ad una nostra vita piena. Il virus ci ha reso nudi, e questo ci dà la possibilità di essere migliori (..) E forse, dopo, quando sorgerà l’alba, potremo guardarci con altri occhi, e potremo scoprire che c’è un altro modo di convivere e di rispettarci, di organizzare l’economia, la società, la politica, un altro modo di pensare, più libero e civile, un altro modo di vivere.”