di Franca Regina Parizzi
Ricordo (circa vent’anni fa) una conversazione, ascoltata senza volerlo, tra due membri (uomini) della Commissione di Laurea in Medicina, di cui facevo parte, nella quale uno di loro, osservando la prevalenza di donne che si presentavano per discutere la tesi di laurea, sosteneva che questo fosse un segnale che la laurea in Medicina si stava “dequalificando” (usò proprio questa parola).
Sono passati molti anni da allora, il numero di donne laureate in Medicina è aumentato ancora, ma una misoginia più o meno mascherata rimane ancora il leit motiv della nostra società.
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, 7 operatori sanitari su 10 sono donne, ma di queste meno di 3 su 10 occupano una posizione dirigenziale apicale. Sono in netta maggioranza gli uomini ai vertici delle aziende sanitarie pubbliche (ASL e Aziende Ospedaliere) e private (case di cura), delle società farmaceutiche, delle Facoltà universitarie preposte alla formazione dei professionisti della salute, delle società scientifiche. Il mondo della sanità rappresenta uno dei settori dove è più evidente l’asimmetria tra i generi nelle posizioni apicali. Nonostante la loro netta prevalenza nella sanità, le donne restano ancora oggi ai margini dei processi decisionali.
Le donne non solo sono state – e sono – in prima linea nella lotta alla pandemia, ma ne sono anche le più duramente colpite, sobbarcandosi un aumento senza precedenti dei carichi di lavoro, dei rischi per la salute e di tutti i problemi relativi al dover conciliare la vita professionale e la vita privata.
Dalla relazione 2021 sulla parità di genere della Commissione Europea emerge come la pandemia abbia amplificato le disparità esistenti tra donne e uomini in quasi tutti gli ambiti di vita, non solo in Europa, ma anche nel resto del mondo.
La quasi totale assenza delle donne nelle sedi decisionali, negli organismi creati per rispondere alla pandemia, è sotto gli occhi di tutti. Nel primo Comitato Tecnico Scientifico del governo Conte non era presente alcuna donna e in quello attuale del governo Draghi sono presenti solo due donne (il 3% dei membri).
L’8 marzo, in occasione della Giornata internazionale della donna, il ministro della salute, Roberto Speranza, ha rivolto il suo ringraziamento a tutte le donne impegnate nel Servizio Sanitario Nazionale nel tutelare la salute dei cittadini e ha ricordato come siano per la maggior parte donne le professioniste del Servizio Sanitario Nazionale, come sia stata una dottoressa a individuare per prima il virus in circolazione nel nostro Paese e tre scienziate a sequenziarlo per la prima volta in Italia. Le fotografie emblematiche della realtà sanitaria ospedaliera durante la pandemia non a caso ritraggono nella stragrande maggioranza donne che curano.
Adesso più che mai è necessario promuovere il capitale umano, sociale e decisionale, di cui le donne sono portatrici. La pandemia ha restituito alle donne visibilità e centralità nel mondo delle cure, un ruolo da protagoniste che non deve essere dimenticato e calpestato.
Ma la pandemia ha anche fatto emergere la necessità di ridisegnare il Sistema Sanitario e ha rimesso al centro delle decisioni politiche e delle priorità individuali e sociali i temi riguardanti la salute, sia collettiva che individuale, quale bene comune primario. Ha evidenziato gli errori di una politica sanitaria ospedalo-centrica e la necessità di potenziare e ri-progettare la medicina del territorio (cure primarie e servizi di prevenzione).
Nasce dall’esperienza sul campo e dal ruolo fondamentale delle donne nella sanità il libro “La sanità che vogliamo”, a cura di Sandra Morano, ginecologa, coordinatrice dell’Area formazione femminile dell’ANAAO Assomed, presentato in live streaming il 1° Aprile 2021, con l’intervento del Ministro della Salute Roberto Speranza.
Un progetto elaborato da un laboratorio di cui hanno fatto parte donne mediche insieme a professioniste di altri contesti (architette, psicologhe, economiste, filosofe, giornaliste), inviato al Next Generation EU. Tra loro, Linda Laura Sabbadini, economista, direttrice centrale ISTAT e Chairwoman del Women20 del G20.
Un progetto multidisciplinare e inter-disciplinare dunque, sul quale ricostruire la salute del futuro, intesa nel senso globale e non incentrata solo sulla malattia. Un progetto che dimostra come le donne possono trasformare la sanità, della quale sono indiscusse protagoniste, proponendo un cambiamento di paradigma dalla parte di chi lavora sul campo, analizzando criticamente errori e carenze e prospettando percorsi realistici per ribaltare un sistema che ha rivelato tutti i suoi liniti e la sua fragilità. Un progetto che si rivolge alle nuove generazioni, con l’obiettivo di far circolare strumenti e idee perché il cambiamento di cui tutti parlano nelle intenzioni non si esaurisca in un ritorno allo status quo precedente. Come ha detto Papa Francesco: “peggio di questa pandemia sarebbe solo il dramma di sprecarla”.
La grande prova di forza offerta dalle donne in occasione della pandemia ha dimostrato sul campo le loro capacità dirigenziali. E’ necessario, alla luce delle loro esperienze, rivedere nella sua globalità il sistema delle cure e osare nuove prassi. Le donne hanno dimostrato di essere i pilastri della sanità, di essere capaci di organizzare e di organizzarsi, dalle competenze più umili a quelle più specialistiche, di saper tenere insieme organizzazione e relazione, in un campo, quello delle cure, che è, ma sarà sempre di più, di competenza soprattutto femminile. Un campo nel quale portare la loro peculiare e differente visione del lavoro, la loro capacità di affrontare situazioni emergenziali, la loro elasticità, la loro passione, il loro senso di umanità e di responsabilità.
Il progetto nasce dalla condivisione delle esperienze diprofessioniste in Medicina dopo la prima fase di lockdown, dall’analisi e discussione delle criticità emerse nelle singole realtà e dalla condivisione della necessità di cambiare il modello di governo della salute nella sua globalità. La pandemia ha rivelato l’incompetenza delle direzioni, l’assenza di una visione a lungo termine da parte della politica, che ha mostrato la sua morte in diretta attraverso fatti – e immagini – da scenari bellici. Le bare scortate dall’esercito, le case di riposo usate come reparti post intensivi, il balletto penoso dello scaricabarile, la ricerca di scudi penali nelle retrovie, le susseguenti fasi di annunci/fumo negli occhi hanno fatto emergere l’enorme distanza dei decisori politici e amministrativi dalla realtà del mondo delle cure. In linea con il neo-liberismo imperante, senza creatività né etica, è venuta a mancare alla classe dirigente una visione olistica della cura. E tuttora non si intravedono segnali per il necessario cambio di rotta riguardo a un settore, la salute, da cui più dipende la vita del nostro Paese.
La pandemia ha evidenziato la necessità di una radicale trasformazione del mondo delle cure, che deve mettere al centro le competenze di chi le eroga e i bisogni di chi le riceve. Cambiamenti radicali, culturali e strutturali, della sanità, decontaminati dall’invasione della politica e restituiti a chi il mondo delle cure lo conosce bene perché ci lavora.
Il progetto “La sanità che vogliamo”, estraneo a logiche di potere, sottolinea l’importanza e la necessità di “umani protocolli” di fronte alla malattia, alla nascita e alla morte. Per questo è un progetto multidisciplinare, che ha voluto coinvolgere, oltre a professioniste del mondo delle cure, altre professioniste che si occupano di trasformare altri contesti (architette, psicologhe, economiste, filosofe, giornaliste), essenziali per la salute in senso globale.
Con questo approccio multidisciplinare basato sull’esperienza, la professionalità e la sensibilità femminile, il progetto vuole ridisegnare non soltanto l’ospedale e i servizi sanitari territoriali (medicina generale, consultori, RSA), ma anche la città, il quartiere, i trasporti, il verde. Un progetto per ricostruire la salute (quella vera, complessa) del futuro, la prevenzione, l’organizzazione del lavoro, le relazioni. Ricostruire la continuità tra salute e malattia, tra cura e benessere, tra territorio e ospedale, tra vita e morte. Occorre una nuova prospettiva, quella delle donne, protagoniste assolute del mondo delle cure, per rifondare la sanità, sulla base delle loro competenze assistenziali, scientifiche e manageriali, e della loro sensibilità e attenzione ad altri aspetti e valori fondamentali del “prendersi cura”, come la relazione tra curante e curato, l’etica professionale, la felicità. Il sistema attuale ha costretto le professioniste sanitarie a ritmi di lavoro massacranti, anche prima della pandemia, attuando una progressiva disumanizzazione del lavoro, riducendo drasticamente i tempi dedicati ai pazienti, alle “persone”: i “tempi della cura”.
E’ dunque necessario pensare a modelli alternativi, progettare nuovi luoghi di cura per il benessere sia di chi ci lavora che dei pazienti.
Un’infermiera consola un bambino di 7 mesi ricoverato nel reparto di Rianimazione dell’ospedale Salesi di Ancona per un intervento e positività al SARS-Cov2
(Da Fanpage 24 marzo 2021)
Un’infermiera stremata dal lavoro massacrante durante la pandemia
(Da: Avvenire 23 Aprile 2020)
La dottoressa Annalisa Malara, l’anestesista che si è imposta per l’esecuzione del tampone, individuando così il coronavirus nel paziente 1
(Da: PrimaPavia 9 marzo 2020)