Ormai è trascorso ben oltre un anno dalla dichiarazione di stato di emergenza sanitaria nazionale, annunciata quasi in concomitanza con l’adozione dello stato di emergenza globale da parte dell’OMS che ha riconosciuto la pandemia di Covid-19. Il 2 marzo arrivava così il decreto dell’allora capo del Governo, Giuseppe Conte, che istituiva zone rosse ed altre forme di distinzione e limitazione della libertà personale degli italiani. Giusto precisare che l’Italia non è stata l’unica a limitare la mobilità ed il lavoro dei propri cittadini, ma anche che riecheggiano ancora le parole di chi al tempo spiegò ragionevolmente come il contenimento del virus fosse necessario per non congestionare i reparti di terapia intensiva ancora impreparati a fronteggiarne i sintomi. Dopo oltre un anno però non sono ancora tangibili gli investimenti – dovuti, con immediatezza e mai realmente effettuati – sul potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale. I medici vengono spostati da un reparto all’altro, il servizio ospedaliero è stato quasi azzerato per il Covid-19 e per dare priorità ai “reparti Covid”. Non si sono viste radicali implementazioni delle piante organiche ospedaliere se non con timidi interventi di precari da specializzare direttamente in corsia, al fronte, per poi rimandarli a casa dopo qualche mese se sopravvissuti alla prima linea in cui erano stati catapultati. Perfino la malattia o il decesso causa Covid veniva considerato come normale malattia invece che causa di servizio in stato di emergenza nazionale. Oggi sentiamo i nuovi arrivati parlare di “guerra”, ma senza ricordare agli italiani che in guerra si istituiscono immediatamente ospedali da campo e che la guerra non sono i civili a doverla combattere.
I civili chiamati alle armi sono tutti gli italiani che, con rispettive appartenenze a categorie professionali devastate dal piano nazionale anti-pandemico, precari senza alcuna forma di ristoro inclusi, non lavorano ormai da molti mesi o hanno dovuto chiudere per fallimento le proprie imprese. Incertezze sulle aperture, cambiamenti repentini di programmi e discrezione iniqua tra categorie professionali hanno causato gravi danni ad alcuni settori avvantaggiandone altri. Basti pensare ai supermercati aperti per rifornire quanti non potendo cenare in un ristorante o una pizzeria hanno inevitabilmente aumentato il volume della spesa, oppure agli acquisti online con l’aumento esponenziale di fatturato per colossi come Amazon ed in generale tutto il mondo dell’e-commerce. La crisi adesso ha raggiunto il livello massimo di esasperazione, e mentre chi siede al posto di guida manifesta incapacità, tra vaccini buoni che poi non lo erano più e scorte vaccinali a rilento con scelte di precedenza forse insensate sulle fasce da vaccinare, arrivano le proteste di tutte le categorie più danneggiate. I ristoratori, con la dura protesta “IoApro”, gli operatori dello spettacolo, ed infine anche i venditori ambulanti ed i lavoratori a giornata. Tutti, da nord a sud sono scesi in strada disattendendo i veti sulle manifestazioni che, per ragioni di prevenzione sanitaria, non vengono autorizzate perché potenziale causa di assembramenti. Ma la pandemia, che ha limitato la libertà personale degli individui, non può adesso limitare anche quella di manifestare e anche a Palermo e Catania le piazze e le strade si sono riempite, le voci sono state alzate.
Le foto pubblicate a corredo di questo articolo fanno riferimento alla protesta che ieri ha rallentato il traffico sulla tangenziale di Catania, tra Misterbianco e San Giovanni Galermo. Nessun momento di tensione, nessuno scontro, traffico rallentato ma non bloccato. La protesta dei veditori ambulanti è stata pacifica, ma il messaggio è stato chiaro. Intanto a Roma sono molti gli esponenti ed i leader politici che tentano di intestarsi il merito di una prossima progressiva riapertura, sperando forse che gli italiani non si rendano conto che a determinare la distensione è solo l’arrivo della bella stagione come avvenne già lo scorso anno, quando in Italia si era sicuramente meno preparati. Resta una incognita che non è mai stata affrontata quella del “Piano nazionale anti-pandemia” con cui sin dal primo momento si poteva ottimizzare il servizio sanitario e fronteggiare con minori danni gli effetti della diffusione del virus SARS-CoV-2. Ne parlammo i primi di aprile dello scorso anno, chiedendoci perché fosse stato completamente disatteso visto che la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ne era stata la promotrice dopo la diffusione mondiale di SARS e aveva inteso avvertire come avremmo potuto essere vittime di una nuova pandemia nel giro di pochi anni. Da quell’articolo tutto, o quasi, rimase invariato. Perfino il presidente della Regione Lombardia rimase al suo posto, anche dopo gli scandali scoppiati su certi acquisti che verranno chiariti meglio in un’aula di Tribunale. Cambiò solo il premier, ma il ministro della Salute pubblica venne riconfermato per l’esecutivo del nuovo capo del Governo Mario Draghi.