di Rosetta Papa
Ginecologa, Napoli
Carmen, la mediatrice, ha sempre un’espressione serena, anche quando le donne che accompagna sono visibilmente disperate e non nascondono l’ostilità nei confronti dell’Istituzione, anche se questa è un Consultorio Familiare, che, a differenza di tutte le altre con cui sono venute in contatto, questa Agenzia “accoglie”. Carmen è di nazionalità rumena, è in Italia dal 2000 e la serenità le deriva da una non facile esperienza personale e da una lunga esperienza professionale.
Lei è una vera mediatrice culturale. Questa definizione troppo spesso viene intesa come traduttrice o, nella migliore lettura, come colei che “media” cioè che favorisce, che facilita la donna straniera nell’accesso ai Servizi nel Paese straniero. Ma è molto di più. E’ infatti una figura indispensabile per entrambi i protagonisti della relazione, soprattutto in ambito sanitario. E’ colei che porta l’operatrice sanitaria nel mondo dell’altra, di qui l’aggettivo “culturale” che spesso si omette.
Carmen accompagna me e la donna straniera, insieme, in un immaginario luogo di incontro, in uno spazio emotivo, dove chi può dare aiuto e chi ha bisogno di aiuto possono intendersi e dialogare.
La sua presenza mi rassicura, non solo perché mi dà la possibilità di comunicare con donne di altre etnie, altre religioni, altri mondi, ma perché lei intuisce subito la mia difficoltà a raggiungere “l’altra da me”, il che ovviamente può succedere. Nella mia professione non raggiungere la persona che ho davanti, non riuscire a decodificare il bisogno di salute che esprime, non stabilire insomma un’alleanza efficace per realizzare una presa in carico, nella mia professione, dicevo, non riuscire in questo intento significa fallire.
Non è stato necessario molto tempo perché Carmen e io riuscissimo a creare una vera e propria squadra, minima, essenziale, ma ben integrata nelle funzioni. Lei ha la grande capacità di gestire i conflitti e non mi riferisco a situazioni concrete che possono determinarsi in qualsiasi realtà lavorativa, mi riferisco piuttosto ai miei conflitti di fronte all’incapacità di stabilire, a volte, una relazione empatica. Prima ancora che la sconfitta si concretizzi davanti ai miei occhi, il che mi spingerebbe a rinunciare, lei interviene e modifica, non so come, quel clima di incomprensione che, per quanto impercettibile a un osservatore meno attento, potrebbe pregiudicare la relazione di cura.
Abbiamo scelto il giovedì pomeriggio per organizzare uno spazio interamente dedicato alle donne straniere, proprio perché è il giorno della settimana in cui le straniere che lavorano, per lo più come badanti, almeno qui a Napoli, sono libere. Con il passare del tempo e grazie alla comunicazione più efficace del mondo, cioè il passa parola, quel Consultorio a metà settimana è diventato sempre più frequentato e non solo dalle straniere inviate dalle Associazioni, ma anche da donne che arrivano autonomamente e non solo straniere, ma italiane e napoletane anche, ma tutte ultime: prostitute, donne senza fissa dimora, HIV positive, insomma ultime. La mission dei Consultori Familiari è proprio quella di raggiungere gli “irraggiungibili”, come Michele Grandolfo ripete da sempre.
Qualche anno fa ho letto un lavoro molto interessante a proposito del così detto “indice di attrazione” che alcuni quartieri delle grandi città esercitano su determinati gruppi di popolazione.
La ricerca, condotta in tre grandi Città italiane: Milano, Roma e Napoli, evidenziò che esistono quartieri dove si realizza quella che viene definita “segregazione” (che nulla ha a che fare con il significato che abitualmente si dà a questo sostantivo) e che viene determinata non solo da una condizione economica, quanto da una condivisione del proprio stato. La vera attrazione per alcuni quartieri della periferia, ad esempio, è determinata dal sentirsi in una comunità omogenea, anche se questa a volte è povera, a rischio ed esclusa.
E’ quanto accaduto allo spazio del giovedì pomeriggio. Il Consultorio “dedicato” ha finito con attrarre donne che preferivano venire quel giorno piuttosto che nel resto della settimana dove le attività offerte sarebbero comunque state le stesse. Sentirsi insieme nella difficoltà, nella necessità, consente di sentirsi parte di una comunità ideale anche se non codificata, quindi meno soli e meno diversi.
Approfittando di un progetto della Cooperativa con cui lavora Carmen, dopo circa un anno, il Consultorio del giovedì si è arricchito anche di donne nigeriane vittime di tratta.
Questa volta la sfida professionale è stata davvero molto diversa; non si è trattato di raggiungere donne i cui determinanti di fragilità sono ben noti: la povertà economica e affettiva, l’esclusione sociale, la violenza in tutte le sue declinazioni, l’abuso, fino ad arrivare alla miseria, cioè a quello stato descritto così bene da Majidi Rahenema nel suo “Quando la Povertà diventa Miseria”, dove appunto sottolinea la differenza tra le due condizioni.
Questa volta l’ambizione era riuscire ad accogliere altri tipi e livelli di sofferenza, altri tipi e livelli di disagio, altri tipi e livelli di disuguaglianza, assolutamente sconosciuti al nostro sapere e soprattutto al nostro sentire. Per superare le disuguaglianze il nuovo paradigma prevede che l’offerta sanitaria sia disuguale. Per raggiungere le persone è necessario conoscere la loro sintassi quotidiana; in assenza di una reale competenza dei bisogni e delle strategie per rispondere ad essi, si continuano ad offrire prestazioni, ma non servizi. Ma la gente, e soprattutto la componente più fragile della popolazione, ha bisogno di Servizi.
Le prestazioni appunto, proposte dal Consultorio del giovedì sono state quelle che questo tipo di Agenzia territoriale deve offrire istituzionalmente e cioè contraccezione, prevenzione e cura delle malattie a trasmissione sessuale, certificazione per l’interruzione volontaria di gravidanza, prevenzione oncologica.
E questo è l’aspetto più semplice di questa esperienza, certamente utile, ma non sufficiente.
Una prestazione appunto.
La storia di Anna
Anna (preferisco dare un nome italiano per garantire il massimo della privacy alla ragazza nigeriana di cui vi racconto) è seduta di fronte a me, al di là della scrivania.
Io con il mio camice sulla cui tasca sinistra è stampato il simbolo della Azienda Sanitaria per cui lavoro; io con il mio sguardo che tenta di suggerire una complicità, una accoglienza; io che scrivo lettere, parole, significati sulla cartella che dovrà servire per raccogliere l’anamnesi di questa giovane donna di 32 anni che ho davanti.
Io che parlo anticipando la traduzione di Carmen, intanto una dopo l’altra le mie parole evaporano nell’aria della stanza, ma anche quelle di Carmen non sembrano sortire effetto diverso, rarefacendosi nell’ossigeno e nella poca anidride carbonica grazie alla finestra aperta, sembrano non raggiungere Anna.
Anna con i suoi abiti scadenti dai colori accesi e cromaticamente inconciliabili.
Anna con la sua maglietta “fina” che non ricorda quella descritta da Baglioni, nella sua indimenticabile canzone, è una maglietta logora, che una serie di perline rosse disposte a disegnare un cuore tenta invano di rendere leziosa.
Anna con il suo sguardo fisso sul mio volto, che palesemente non vede.
Riempio la cartella con poche notizie essenziali.
Carmen la invita a sdraiarsi sul lettino e con questa indicazione pare che i gesti siano più efficaci delle parole. Come fosse sorda e muta.
Quando si alza vedo i suoi pantaloni. Attillatissimi, neri, di quel tessuto plastificato lucido. Non indossa biancheria intima.
Il tempo di preparami per la visita e lei è già lì, pronta, con le gambe divaricate, anche troppo, esibisce i suoi genitali con indifferenza, anzi con durezza.
Mi viene in mente io sono il mio corpo di Jean Paul Sartre. Mi sento ridicola ed abbandono subito questa divagazione così inopportuna in questo momento.
Lo sguardo che Anna prima indirizzava verso il mio viso, ora lo rivolge al soffitto. Nessuna interazione, nessuno scambio. Nulla.
Ritorna a sedersi, io riprendo a scrivere e lei riprende a guardarmi.
Sono certa che, se non rientrassi nel suo campo visivo standole proprio di fronte, Anna continuerebbe a guardare davanti a sé con la stessa cecità.
Metto gli occhiali, li tolgo, li rimetto. Prendo la penna. Scrivo, prescrivo. Cerco un saggio di detergente da regalarle. Metto un timbro. Carmen traduce, spiega.
Chiaro? Un cenno della testa ci basta. Speriamo.
Accompagno Carmen ed Anna fuori dalla stanza. Nel corridoio altre donne aspettano, altri volti stanchi, spazientiti, indifferenti, malinconici, sconfitti.
Anna si avvicina a una donna, anche lei nigeriana, che appena la vede le va incontro, le prende la mano assecondando la sua andatura da robot. L’altra donna mi sorride e in un italiano abbastanza corretto mi dice: “Ciao dottoresa, grazzie”
L’anamnesi non scritta
Anna parte dalla Nigeria con il fratello. La promessa è un lavoro come badante in Italia.
Il viaggio costa 4000 euro ciascuno, ma i genitori sono contenti di fare sacrifici per assicurare un futuro migliore ai figli. Il viaggio dura 18 mesi. Durante la traversata verso la “terra promessa” un uomo si avvicina troppo ad Anna, tenta di toccarle il seno.
Lo spazio è poco, il fratello reagisce, nasce una colluttazione. All’improvviso interviene uno degli scafisti. Il fratello di Anna viene colpito con il calcio di un fucile alla testa. Perde sangue, troppo.
Due uomini lo buttano in mare nonostante le grida e le preghiere di Anna. Il giovane corpo non reagisce, non si sa se perché ha perso troppo sangue, se perché è solo svenuto o se perché è già morto. Il gommone si allontana. Il mare all’inizio lo accoglie quasi a cullarlo, ma poi lo copre, lo avvolge e infine lo trascina giù sul fondo.
I migranti ci stanno dando un’altra immagine della morte,
loro non salgono in cielo, loro sprofondano in mare
Anna non ha avuto il tempo di piangere, perché mentre continuava a fissare le onde sperando di vedere riaffiorare il corpo di suo fratello, si è trovata tre uomini uno dopo l’altro dentro di sé.
In Italia non ha lavorato nemmeno un giorno come badante, ha cominciato subito il lavoro in strada. La donna nigeriana che l’ha accolta fuori dal Consultorio era quasi certamente la “madame”, ora è lei che custodisce i suoi documenti.
Anna ha solo 32 anni e ha un grosso debito da pagare.
C’è una strada che a volte percorro, un vicolo che unisce due grosse arterie del Centro. Lei lavora lì, l’ho incontrata spesso, ma qualche giorno fa ha risposto al mio sguardo, ha quasi accennato un sorriso, come se mi avesse riconosciuta.
Il mio cuore si è emozionato come al primo incontro con l’amore.
Anna ha forse capito, entrambe avremo un’altra possibilità, sono certa che ritornerà al Consultorio.