“Cà semu!” Luca Vullo ed il suo documentario su Lampedusa

Dalle delusioni che lo hanno indotto ad emigrare ai successi che gli hanno fatto girare il mondo fino al documentario su Lampedusa nell'intervista con il regista nisseno di "La voce del corpo" Luca Vullo

Luca Vullo è un artista e regista di Caltanissetta che qualche anno addietro ha lasciato l’Italia come molti connazionali di talento. All’estero ha ricevuto il riconoscimento che meritava ed adesso, per conto di una Università del Regno Unito, è tornato in Sicilia per girare un nuovo documentario. Il suo nuovo lavoro riguarda i lampedusani, forse ancor più che Lampedusa. Lo abbiamo incontrato al Bar dell’Amicizia di Lampedusa poche ore prima che lasciasse l’isola al termine delle riprese. Ne è nata una intervista su Lampedusa, ma anche sull’Italia e sulle opportunità che questo Paese preclude ai giovani italiani.

Luca, hai avuto un enorme successo con “La voce del corpo”, ce ne parli?

È un documentario sulla gestualità dei siciliani che ho realizzato nel 2011. Raccontavo il perché i siciliani sono così gesticolanti. Ho fatto la mia analisi storica e sociologica per dire che in effetti noi siciliani, come altre popolazioni del sud Italia in particolare, siamo uno dei popoli più straordinari nell’uso del corpo per comunicare emozioni, concetti e bisogni senza dover usare espressioni verbali.

Dopo La voce del corpo hai lasciato l’Italia, perché?

Per diverse ragioni. In Italia non mi filava nessuno, quindi “non ci stavo più dentro”. Quindi mi sono trasferito all’estero e a Londra mi è cambiata la vita. Pur non conoscendo nessuno nel mio settore, solo proponendo il mio lavoro a chiunque potesse essere interessato, come l’Istituto di cultura italiano, la Libreria italiana o il Dipartimento di linguistica, e questa promozione ha attecchito immediatamente. Senza il “chi sono ed a chi appartengo” ormai tristemente tipici dell’Italia. Perché a loro interessava il contenuto e non le referenze. Lo hanno trovato utile ed originale, e da li in poi ho avuto tante collaborazioni molto interessanti. Ho iniziato una collaborazione straordinaria con il Royal National Theatre di Londra che mi ha chiamato per insegnare agli attori che lavoravano alla rappresentazione della Liolà di Pirandello come si gesticola se sei un siciliano. È stata una esperienza pazzesca ovviamente. Da li sono poi nate tante altre incredibili esperienze, dall’articolo del The Guardian alla collaborazione con la BBC.

Cosa hai fatto con la BBC?

Volevano fare un servizio per il pubblico non udente dimostrando che essi potrebbero sopravvivere facilmente in Italia solo con i gesti e mi hanno ingaggiato come consulente. La mia risposta è stata “of course!”, certo che potete sopravvivere! Lo abbiamo fatto e anche con risultati eccellenti.

Quindi potrebbero sopravvivere?

Si, potrebbero tranquillamente sopravvivere. Anzi, sono rimasti scioccati per quello che potrebbero fare in Italia. In Inghilterra dovrebbero scrivere tutto perché gli inglesi non usano il loro corpo per comunicare; e in tal senso non li capisco. Quindi, esperimento riuscito, si è aperto davvero il Vaso di Pandora.

In che senso?

Dopo l’esperienza con la BBC mi ha contattato l’Università di Bristol: Mi dicono “Ok, figata, questa cosa ci interessa” e mi chiedono se posso farlo anche con i loro studenti di italiano delle Master class. Ed anche in questo caso ho risposto “of course!”. Quindi ho iniziato con due giornate di Master class a Bristol, poi mi ha chiamato Londra, poi Cambridge, e dopo le Università del Regno Unito l’esperimento si è allargato a macchia d’olio e ho iniziato a viaggiare in tutto il mondo. Ho fatto un tour in Australia, in America, ho girato l’Europa in molti Paesi e conoscendo molte realtà diverse per conto delle Università principalmente ma anche per gli Istituti di cultura italiana. Così questo è diventato praticamente il mio lavoro a tutti gli effetti. Come se mi fossi inventato una nuova attività professionale: quella di insegnare la gestualità italiana. E questo mi ha cambiato la vita.

In che modo?

Se pensi che ho fatto anche delle settimane nelle Summer School in California per conto di prestigiose Università americane con degli spettacoli teatrali finali, capisci come l’evoluzione di questo lavoro ha prodotto perfino le performance che adesso faccio in giro per il mondo. Le mie performance sono degli spettacoli comici ma culturali. Non è cabaret. È lo spettacolo di un performer educatore siciliano. Anzi, sicilianissimo. Anche mezzo calabrese, altrimenti mia madre si offende!

Hai anche omaggiato una tua performance a Lampedusa, giusto?

Si, lo abbiamo fatto al Tunez. Credo sia una cosa mai fatta sull’isola. Abbiamo abbinato alla serata cous cous che loro organizzano ogni giovedì un evento culturale che avviene proprio mentre si sta cenando. Quindi abbiamo abbinato al cibo, e così alla cultura multi-etnica, la nostra estrazione e le nostre origini per meglio spiegare ad un turista perché siamo così diversi rispetto ad un bresciano o ad un milanese.

Sei uno dei “cervelli fuggiti” dall’Italia?

La voce del corpo è stato finanziato dalla Film Commission siciliana, ma in Italia non ho poi trovato sbocchi. Purtroppo, come ormai troppo spesso accade, quando hai successo all’estero automaticamente diventi poi interessante anche in Italia. Fino a quando resti in Italia il concetto è “Questo chi minchia è?”, quando poi fai un tour internazionale ed esci su tutti i giornali stranieri qualcuno dice “Ma sai che questo tipo è interessante?”. Certo, mi rendo conto che in Italia possiamo anche essere abituati a certe cose e per questo non comprenderne immediatamente il motivo di interesse, ma è anche vero che all’estero vengono molti italiani a vedere lo spettacolo. Perché nel momento in cui vedono che non sto li a parlare dello stereotipo della gestualità italiana ma ti ci metto dentro tutto l’aspetto storico, linguistico e culturale la cosa diventa molto più interessante. Adesso infatti sto facendo molta più attività anche in Italia. A Siracusa sono stato chiamato a parlare di gestualità per la neuropsichiatria infantile. Cioè l’utilizzo del corpo per la comunicazione non verbale con i propri bambini; perché questa incide sulla loro personalità, sull’identità. Devo dire che anche molte Tv mi hanno invitato, anche se l’Italia si è interessata a me soltanto dopo tre o quattro anni all’estero.

Quanti documentari hai realizzato fino ad oggi?

Circa una decina, ma la cosa bella è che sono a Lampedusa per realizzare un altro documentario. Dopo anni all’estero, mi fa molto piacere che una Università come quella di Londra, nella persona di Michela Franceschelli, che è la sociologa dell’Università italiana, e la sociologa Adele Galipò, mi hanno invitato a raccontare come Lampedusa è cambiata in tutti questi anni parlando però solo con i lampedusani. E credo che abbiamo fatto una analisi interessante, perché per la prima volta non ci siamo concentrati sui migranti ma perché l’idea progettuale era quella di vedere le cose dalla prospettiva di chi vive sull’isola ed ogni giorno fa altro e non si occupa dei migranti. Non perché l’argomento dei migranti non sia interessante, ma ci interessava di più il punto di vista dei lampedusani.

Che idea ti sei fatto al riguardo?

Bianco o nero. Come immaginavo non c’è una mezza misura. Il titolo che abbiamo dato a questo lavoro è “Cà semu!”, e probabilmente aggiungeremo “e cà calamu!”, che è un tipico detto locale che mi piace molto perché probabilmente è quello che più emerge dalla cultura locale. Significa “Siamo qua, quello che succede ci prendiamo!” – letteralmente: Qui siamo e qui caliamo la rete per pescare, nda – ma senza scomporci più di tanto. In qualche modo questo concetto mi colpisce molto. Perché a Lampedusa aspetti la nave che arriva, aspetti il turista, aspetti sempre qualcosa. E lo senti che in quest’isola si aspetta. Eppure, è anche vero che nessuna altra popolazione avrebbe forse potuto gestire quello che Lampedusa ha gestito negli anni. Sfido io qualunque altro villaggio di seimila abitanti a gestire quello che ha gestito Lampedusa. Nel bene e nel male, con tutte le rimostranze che possono esserci state da parte della popolazione, secondo me sono state delle grandi persone. Non voglio dire che Lampedusa è l’isola dell’accoglienza, ma sicuramente ha dimostrato di saper fare delle cose che nessun altro avrebbe saputo fare. Nessun altro avrebbe potuto gestire pur essendo un comune infinitamente più grosso di Lampedusa. Anzi, Lampedusa è diventata per questo anche un po’ come la puttana sfruttata in vario modo a livello istituzionale.

Credi che il pragmatismo con cui i lampedusani affrontano tutto è dovuto alla personalità che hanno sviluppato vivendo, da piccola comunità in alto mare, da soli e dovendosi arrangiare ogni giorno per sopravvivere?

Si, l’isola ha una personalità molto forte, come sono i lampedusani del resto. Hanno un carattere molto duro, molto forte, come la roccia. Come l’isola. Quello che mi colpisce di questo posto è che, non avendo mezze misure, è bellissimo ma durissimo allo stesso tempo. Ed i lampedusani sono cosi, allo stesso modo. Sull’isola c’è una libertà estrema ma al tempo stesso sei in prigione. Questo ha sviluppato una particolare capacità nei lampedusani di affrontare ogni cosa, anche e forse soprattutto quello che arriva dal mare. Hanno affrontato anche il 2011 gestendo ciò che accadde, devo dire, molto bene. Ripeto, sfido una comunità ben più grande come Verona o Bergamo a gestire come hanno fatto a Lampedusa l’arrivo di ottomila o novemila persone lasciate in quelle condizioni sul territorio. Quindi, come vedi, nonostante tutto, “Cà semu e cà calamu!”. Il lampedusano resta malgrado tutto nella sua vita quotidiana con la sua lotta per la sopravvivenza, anche se hanno avuto fortissime difficoltà anche per quello che è successo a livello mediatico.

In che senso, cosa è successo secondo te?

Ecco, una cosa che forse mi aspettavo e che temevo venendo qui per questo documentario: una certa rimostranza nei confronti delle telecamere. Nel senso che sono stanchi dello sfruttamento mediatico che hanno avuto in tutti questi anni.

Hanno esaurito la tolleranza nei confronti della stampa?

Credo di si. Molto spesso ci capitava di avvicinarci con la telecamera e sentirci dire “No, giornalisti non ne vogliamo!”.

Questo accade perché poi non si riconoscono in quello che viene mandato in onda, giusto?

Si, al 99%. Anzi, al 100% direi. Anche i pescatori stessi ci dicevano “Non ne faccio più interviste! Perché ho parlato un ora e mezza e poi ci hanno messo due parole e pure quelle sbagliate!”. Certo, fa parte del gioco. Se ti intervisto per mezz’ora poi riesco a mettere per ragioni di tempo solo due o tre battute. Però capisco le loro ragioni e le rispetto. È come se fosse stata stuprata quest’isola, dalle telecamere e dai giornalisti. Ho sentito questa stanchezza in loro. Come se dicessero “Non ci rompete più il …..! Non ci fidiamo più di voi”.

Quanto avete girato per il documentario?

Non tantissimo. Circa dieci giorni durante la fase di preparazione della stagione turistica e due settimane adesso.

E cosa verrà fuori da queste interviste?

Un video da trenta minuti abbinato agli studi antropologici e sociologici delle due professoresse con una circuitazione universitaria scientifica, ma anche una circuitazione cinematografica e festivaliera. Vogliamo farlo girare e farne discutere, perché in questi anni si è girata tanta roba a Lampedusa e non tutti son contenti di quello che è stato realizzato. Sono quindi anche curioso di vedere che cosa mi diranno i lampedusani di questo lavoro. Mi aspetto dagli abbracci alle fucilate!

Volevo appunto farti una domanda al riguardo. Dopo aver vinto l’Orso d’Oro a Berlino, Fuocoammare di Rosi è stato proiettato a Lampedusa e gli isolani lo hanno accolto in modo alquanto freddo. Non si sono riconosciuti o non hanno apprezzato l’interpretazione artistica che il regista ha voluto dare all’isola. Tu intendi tornare qui e proiettare “Cà semu” per vedere come reagirà questo pubblico-giuria?

Si, sono pronto a questa sfida. Ripeto, i lampedusani hanno un carattere molto forte e ti possono abbracciare o stritolare, ed io sono pronto a vedere se con il mio team di lavoro sono stato bravo a raccontarli; anche se in poco tempo. Ho cercato di essere il più onesto possibile ed il meno giornalistico possibile. Questo lo vedremo come vedremo cosa mi diranno. In ogni caso lo accetterò.

Quando pensi di tornare a Lampedusa per proiettare “Cà semu”?

Entro la fine di quest’anno sicuramente!

Ti aspettiamo.

Intervista di Mauro Seminara

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