di Vittorio Alessandro
Il provvedimento di chiusura del mare territoriale firmato dal ministro Salvini sospinge definitivamente il soccorso in mare nella pura strumentalizzazione politica, con il rischio di creare, nella realtà operativa, situazioni ingestibili di confusione e di pericolo.
Il provvedimento, per i suoi aspetti formali, è illegittimo, in contrasto con le convenzioni internazionali sull’uso del mare e con il codice della navigazione. Il Viminale si interpone fra il vertice istituzionale dell’organizzazione marittima e del soccorso, e la competenza operativa delle Capitanerie di Porto non, come sarebbe giusto, con una missiva al ministro competente, ma con un proprio provvedimento indirizzato alle Forze di polizia e a una Forza armata, come negli stati autoritari.
Sul piano operativo, la prima confusa conseguenza del provvedimento l’abbiamo avuta quando la Guardia di Finanza ha ordinato alla Mare Jonio di “fermare le macchine” in mezzo al mare agitato. Un ordine inaudito, sotto il profilo nautico: le macchine non servono soltanto a navigare, ma anche a difendersi dal moto ondoso, a mantenere a galla il natante. Non a caso la Guardia Costiera ha subito provveduto ad assegnare alla nave un punto di ancoraggio a ridosso di Lampedusa.
I pericoli della direttiva sono imprevedibili, e possono creare serio nocumento anche al ministro. Nella maggior parte dei casi di navi trattenute fuori dal porto, le esclamazioni su Twitter e le parole d’ordine si sono arenate di fronte alla disperazione crescente delle persone costrette a bordo, naufraghi ed equipaggi, e fin qui, il ministro ha potuto sperare che ogni vicenda si chiudesse con un intervento esterno buono a liberarlo dal vicolo cieco: un intervento dell’Europa, del Papa, o del Presidente della Repubblica.
La direttiva costituisce, ora, un muro invalicabile, e chi costruisce muri, prima o poi, ci si ritrova chiuso dentro.
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