di Mauro Seminara
C’è un giornalista, un bravo giornalista, che si chiama Nello Scavo. Lavora per un giornale che, in quest’epoca di fogliacci di partito e amplificatori di propaganda, risulta prossimo a quelle testate da giornalismo “aggressivo” e d’inchiesta quotidiana che hanno reso la professione motivo d’orgoglio per chi la esercitava. Dalle pagine di Avvenire, con la firma di Nello Scavo, ieri è stata pubblicata in Italia la verità sulla cosiddetta “guardia costiera” della Libia e sul reale coinvolgimento della Marina italiana sulla gestione del JRCC libico. La precisazione “in Italia” è dovuta. L’inchiesta uscita ieri nelle edicole italiane grazie ad Avvenire è stata contemporaneamente pubblicata da altre testate in altri Stati membri dell’Unione europea. Una bomba per il Governo italiano, già alle prese con un’indagine a carico di premier e tre ministri di cui due vicepremier. I nomi di Conte, Salvini, Di Maio e Toninelli sono sul fascicolo del Tribunale dei ministri di Catania che, con tutta probabilità, chiederà alla Giunta per le Immunità parlamentari l’autorizzazione a procedere in giudizio contro i pesi massimi del governo italiano. Il caso in questione è quello della nave Sea Watch 3, della omonima Ong tedesca Sea Watch. Il reato ipotizzato è lo stesso del caso della nave Diciotti della Guardia Costiera italiana dallo stesso Tribunale dei ministri: sequestro di persona. Questa volta però il Tribunale dei ministri di Catania procede non solo contro il ministro dell’Interno, che al tempo del caso Diciotti si assumeva tutta la responsabilità del divieto di sbarco, ma anche a carico di quei ministri che in Giunta per le Immunità del Senato fecero pervenire una memoria difensiva di concorso in responsabilità al fine di salvare il ministro Salvini. Quest’ultimo, di buon grado, smise di attribuirsi i superpoteri e le responsabilità, almeno in quell’occasione, ed accettò di condividere il crimine di cui veniva accusato insieme ai colleghi del M5S.
Questa volta però il caso è diverso, e ben più grave. Quello pubblicato da Avvenire è infatti un caso da Corte internazionale. E nel caso specifico sul banco degli imputati ci sale l’Italia, senza passaggio in Giunta per l’immunità. Gli audio a corredo dell’inchiesta pubblicata ieri non lasciano grande margine di fuga ai ministri, premier e vicepremier. E poco sarà utile buttarla in caciara con le vicende Armando Siri e Virginia Raggi. La Libia non era, già prima della guerra civile, in grado di gestire un’area SAR. Area di Ricerca e Soccorso riconosciuta di competenza libica per volontà e forzatura italiana. Ma la SAR ha dei requisiti di base, degli standard del servizio di guardia costiera che la Libia non possiede. In Libia, come dimostrato ieri dal quotidiano Avvenire con il servizio firmato da Nello Scavo, non ha neanche personale che parli inglese in sala operativa. Non è un errore oppure una esagerazione, la sala operativa del Coordinamento internazionale soccorso e ricerca della Libia parla solo in arabo. Dall’inchiesta è venuta fuori, con prove alla mano, quanto già si sapeva sull’inadeguatezza della SAR libica, ma soprattutto è stato dimostrato che – malgrado le ufficiali smentite del ministro dell’Interno in Parlamento – la Marina militare italiana svolge un ruolo suppletivo in Libia per il coordinamento dei soccorsi in mare. A far emergere le prove sono state le indagini in corso per il terzo caso giuridico delle politiche in materia di immigrazione di Salvini e sodali, quello che costerà parecchio al Governo ed anche all’Italia: il caso Mare Jonio.
Dopo il caso Diciotti, dopo il caso Sea Watch 3, si è giunti adesso al caso Mare Jonio. La nave della Ong Mediterranea Saving Humans ha una cosa in comune con entrambi i precedenti casi nazionali: è italiana come la Diciotti ed è una Ong come la Sea Watch 3. A queste caratteristiche si aggiungono quelle del soccorso in mare di 49 persone in cui la nave è stata costretta ad intervenire in assoluta assenza della sedicente guardia costiera libica tanto spesso pronunciata dal ministro dell’Interno. E le caratteristiche del soccorso sono il boomerang che il Governo italiano ha lanciato senza rendersi conto di come sarebbe inevitabilmente tornato indietro. A detta di Matteo Salvini, infatti, la Mare Jonio avrebbe violato questo e quello, rifiutandosi di attenersi alle direttive del coordinamento libico per il soccorso. Su questo era stata incentrata perfino la direttiva ministeriale “ad navem” di Salvini; quella che aveva fatto torcere il naso anche allo Stato Maggiore della Difesa e che adesso gli si ritorce contro. Perché di fatto, sia in Parlamento che nero su bianco con l’ultima direttiva ministeriale, il ministro pare avere spudoratamente dichiarato il falso. La guardia costiera libica non c’è. Non esiste.
La Mare Jonio non ha violato le consegne di nessun libico quel 18 marzo, soccorrendo 49 migranti in pericolo mentre la Guardia Costiera italiana si rivolgeva ad un servizio di traduzione telefonico per riuscire a farsi comprendere dall’ufficiale in servizio alla sala operativa della Libia. Tra sequestri di persone, ordini indiretti o twittati di cui i ministeri non mostrano documentazione, falso in Parlamento e accordi torbidi con la Libia in cui compare perfino la Marina militare italiana a fare gli extra mai ufficialmente autorizzati dal Parlamento italiano, ce n’è quanto basta per porre fine a questa esperienza targata Lega-M5S e chiedere il processo, in sede internazionale, dei diretti responsabili: Conte, Salvini, Di Maio, Toninelli e anche la ministra della Difesa Elisabetta Trenta, che all’oscuro di tutto non poteva certo esserlo. Se si vuol vedere poi anche il lato comico della vicenda, basti pensare che ciò che sta emergendo e che Avvenire ha pubblicato emerge proprio grazie all’ossessivo tentativo di incriminare le Ong ed in particolare la nave italiana Mare Jonio, che ha diritto di difesa e per questo di accesso a tutte le comunicazioni intercorse tra l’MRCC di Roma e il JRCC della Libia. Questo procedimento rende adesso tutto di pubblico dominio proprio grazie a chi aveva tutto l’interesse a tenere ben nascosta la verità.
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