di Mauro Seminara
Carola Rackete, comandante della nave Sea Watch 3, è esausta e moralmente sfinita. La nave della Ong tedesca attende da 14 giorni che uno Stato le indichi un porto sicuro in cui sbarcare le 42 persone ancora a bordo dal soccorso del 12 giugno. Tra Libia, Olanda, Italia e Malta, l’unica indicazione era stata quella libica del porto di Tripoli. Un porto non sicuro che avrebbe reso la Ong complice di un respingimento di potenziali richiedenti asilo in zona di conflitto (la Libia è in guerra civile e i raid aerei bombardano anche dalle parti di Tripoli). Al quattordicesimo giorno, tredicesimo da quando la nave si è spostata sul porto sicuro più vicino, Lampedusa, ancora nessuna delle autorità interpellate al momento del soccorso ha trovato la quadra per indicare alla Sea Watch 3 un Place of Safety, un porto sicuro. Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, CEDU, ha preso una pilatesca posizione, rinviando la decisione sul merito dei motivi ostativi e stabilendo che, non essendo a bordo della nave Ong alcuna persona a rischio della propria vita, non può ordinare allo Stato italiano l’autorizzazione all’ingresso in porto. Si attenderà la sentenza della Corte di Strasburgo per i diritti umani sul perché si verifica questo cortocircuito tra le leggi internazionali e i decreti sicurezza italiani, ma quando questa verrà riunita per pronunciarsi sarà comunque troppo tardi. A bordo della Sea Watch 3 sono esausti. Non ce la fanno più. Nessuno spiraglio. Nessuna certezza. Una nave abbandonata in alto mare con circa cinquanta persone a bordo, costretta a guardare terra ma non potervi attraccare, mentre a bordo il quadro psicologico è in rottura ed i volontari sono continuano a fare turni per essere sicuri che nessuno dei profughi rifiutati dall’Europa compia un insano gesto.
La Corte Europea, la CEDU, aveva comunque preteso dalle autorità italiane la garanzia di assistenza a bordo della Sea Watch 3. Assistenza che adesso dovrebbe anche fornire visite di medici esperti in psicologia e non soltanto di medici internisti. Perché a bordo, tra minacce di autolesionismo e demoralizzazione da percezione di rifiuto per discriminazione razziale, le sofferenze non sono più soltanto fisiche. La decisione presa dalla comandante Carola Rackete, già paventata nei giorni scorsi, arriva quindi dopo il crollo psicologico causato dal pronunciamento della CEDU prontamente cavalcato del ministro dell’Interno che ha commentato come un riconoscimento alle politiche dei porti chiusi e della criminalizzazione delle Ong quanto asserito a Strasburgo. “Anche la Corte Europea di Strasburgo conferma la scelta di ordine, buon senso, legalità e giustizia dell’Italia: porti chiusi ai trafficanti di esseri umani e ai loro complici. Meno partenze, meno sbarchi, meno morti, meno sprechi. Indietro non si torna”, aveva subito esultato Matteo Salvini. Ma il principio di quanto provvisoriamente affermato dalla Corte è diverso da quanto affermato dal ministro circa la scelta di ordine e buonsenso. La Corte “chiede alle autorità italiane di continuare a fornire tutta l’assistenza necessaria alle persone che si trovano a bordo della Sea Watch 3 in situazione di vulnerabilità a causa della loro età e delle loro condizioni di salute”, e visto che le misure adottate dalla CEDU si applicano “solo in caso di rischio imminente di danno irreparabile”, questa non ha potuto accogliere la parte di ricorso della Ong Sea Watch con cui veniva chiesto l’intervento con “misure provvisorie” per far sbarcare i profughi nel porto sicuro più vicino: Lampedusa.
Le conseguenze, per la Ong, sono quelle previste dal “decreto sicurezza bis” ed includono il sequestro della nave ed una sanzione di probabili 50mila euro. Ma a queste vanno aggiunte le spese legali da sostenere per la difesa della comandante e dell’equipaggio e per il fermo della nave. Tutto un percorso giudiziario che vedrà l’opposizione, in tutte le sedi nazionali ed europee, della difesa legale di Sea Watch alla vigente normativa introdotta dall’attuale Governo italiano ed in particolare con i decreti leggi – misure che prevedono l’urgenza governativa – introdotti dal ministro dell’Interno e promulgati dal presidente della Repubblica. Un iter giudiziario lungo e costoso che non assicura la “sconfitta” della Ong ma delle Ong. Ferma ancora nel porto di Licata la Mare Jonio, per il sequestro ordinato dalla Procura di Agrigento, e sequestrata – prima in assoluto – la Sea Watch 3 per l’applicazione del “decreto sicurezza bis”, con una posizione pilatesca assunta dalla CEDU temporaneamente a vantaggio della propaganda politica italiana, nel Mediterraneo centrale adesso non ci sarà più nessun soccorritore e questo sarà causa potenziale di omissioni di soccorso e morti. Nessun pescatore e nessun mercantile rischierà più di prendere a bordo dei migranti, ma questi non smettono di partire perché le condizioni nel luogo da cui provengono non sono in miglioramento. Ieri sono arrivati altri 8 migranti tunisini a Lampedusa, raggiungendo le acque territoriali. Nei giorni scorsi erano stati un centinaio, tra vari sbarchi autonomi di tunisini e la barca con cittadini subsahariani e del Bangladesh che avevano raggiunto le acque territoriali italiane dopo che un peschereccio li aveva lasciati a 60 miglia sud dell’isola. Centinaia quelli fermati a largo della Libia e riportati indietro dalla sedicente guardia costiera libica. Altri erano arrivati a Malta. Le partenze non si fermano, ma i soccorsi scompariranno.
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