di Mauro Seminara
Per il sesto anno consecutivo il bilancio dei migranti morti nel Mar Mediterraneo supera quota mille. Sei anni da quello che l’UNHCR ha definito questa mattina “desolante pietra miliare”. Anche il dato reso dall’OIM, l’agenzia internazionale delle Nazioni Unite per le migrazioni, è desolante e traccia un quadro emblematico per le politiche europee in materia: dal 2014 oltre 15.000 persone hanno perso la vita nelle traversate del Mediterraneo. Ad esito di queste valutazioni, il portavoce dell’UNHCR, Charlie Yaxley, in una dichiarazione registrata anche dalla Reuters, ha annunciato che “l’UNHCR chiede urgentemente un aumento della capacità di ricerca e salvataggio, compreso un ritorno delle navi statali dell’Unione europea alle operazioni di ricerca e salvataggio e un riconoscimento del ruolo cruciale delle navi delle ONG nel salvare vite in mare”.
L’unica vera nave da soccorso umanitario in servizio è la Ocean Viking di SOS Mediterranee e Medici Senza Frontiere, ma si trova ancora nel porto francese di Marsiglia dall’ultima lunga operazione operazione di soccorso che si concluse con lo sbarco di 182 persone a Messina. La guerra alle ONG, ad epilogo della lunga marcia di criminalizzazione iniziata in Italia con alcuni magistrati, la campagna di “generazione identitaria” e l’azione politica dell’allora ministro dell’Interno italiano Marco Minniti, è l’indisponibilità di porti italiani e maltesi per le ordinarie operazioni di rifornimento nave e turn over equipaggio. La Ocean Viking è quindi costretta a navigare per giorni ogni volta che deve effettuare una sosta tecnica. Nel frattempo il mare, nel tratto di Mediterraneo antistante la Libia ed il sud della Tunisia, è sguarnito di pronti e disponibili soccorritori. Lo si è visto con il caso delle cinquanta persone abbandonate al largo di Misurata per quattro giorni
La flottiglia di navi ONG è quasi tutta all’ancora. Almeno quella nata dopo o sopravvissuta al Viminale di Minniti e poi a quello di Salvini. La tedesca Sea Watch 3, celebre per il caso di Carola Rackete con l’ingresso in porto forzato con annesso incidente tra la nave ONG ed una motovedetta della Guardia di Finanza, dissequestrata per la magistratura è ferma per la Prefettura che vi applica gli effetti del cosiddetto decreto sicurezza. Ferma per analoghe – ed ancor più inspiegabili ragioni – l’italiana Mare Jonio e così anche la catalana Open Arms. Nessuna nave di Organizzazione umanitaria non governativa al largo del Nord Africa mentre il flusso migratorio attraverso il Mediterraneo centrale si rinvigorisce in quest’ultima parte dell’anno. Il cosiddetto “pull factor”, il fattore d’attrazione che le navi avrebbero esercitato secondo una ammorbante quanto falsa propaganda politica da poco estinta, non esiste e neanche l’assenza di navi disposte al soccorso ferma le partenze. La frittata è subito girata dalla stessa fonte politica secondo cui non sarebbe adesso la presenza di navi ONG ad incentivare le partenze ma quella del nuovo governo italiano a farlo.
In quest’ultimo caso potrebbe essere in parte vero che il nuovo equilibrio politico italiano sia motivo di rottura degli argini con conseguente nuovo flusso migratorio. In parte, perchè la chiusura ad oltranza dell’area di partenza libica ha causato un punto di sfogo dal lato delle coste tunisine. Ma è comunque innegabile che all’arrivo di un nuovo interlocutore italiano sia partito un certo numero di lanci di “barche a perdere”, cariche di migranti, dalla Libia che nel frattempo si affrettava a batter cassa con emissari del Governo di Accordo Nazionale di Fayez al-Serraj. L’incontro a Roma tra il vicepresidente libico Ahmed Maiteeq e la titolare del Viminale Luciana Lamorgese si è tenuto venerdì 27 proprio per avviare il dialogo con il nuovo esecutivo italiano sui mezzi con cui la Libia dovrebbe fronteggiare il fenomeno migratorio. Un gioco politico che si vedeva anche ai tempi di Gheddafi ogni qualvolta in Italia giurava un nuovo Governo.
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