di Vittorio Alessandro
Chi ha la mia età ha visto la Sicilia puntare sulle strade e divellere binari con gran festa, costruire ponti su paesaggi preziosi e svincoli imponenti. Ora che, nel giro di pochi decenni, il traffico automobilistico si è centuplicato facendosi indispensabile, subiamo viadotti chiusi, ponti interrotti, strade sbarrate per crolli, cantieri e semafori infiniti sulle vie di grande transito, riduzioni della velocità a dieci all’ora e divieti ai motocicli per la pericolosità del manto stradale.
Quando si parla di comunicazioni, ci si riferisce ormai soltanto alle antenne, come se la nostra presenza fisica non fosse affatto indispensabile: un gravissimo vizio culturale.
Nei luoghi in cui vivo, per esempio, lasciare la macchina in officina ti mette in uno stato di minorità grave molto più che altrove. Al volante, guardiamo distrattamente persone che rischiano la vita camminando sul ciglio della strada: non soltanto gli stranieri che raggiungono i campi per lavorare, ma anche i turisti costretti a percorrere, per acquistare il biglietto per la valle dei Templi, più di un chilometro dal parcheggio degli autobus.
Siamo perduti se restiamo a piedi per qualche motivo e, senza uno straccio di servizio pubblico degno di questo nome, le distanze che percorreremmo in pochi minuti si fanno infinite.
Incassiamo, allora, il senso di precarietà di questo vivere male, come se altre possibilità non fossero date, e tutto questo lascia un segno che tutti gli amministratori, di diverso ordine e grado, dovrebbero imparare a riconoscere.
Hanno, però, altro a cui pensare.
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