di Vittorio Alessandro
È costituito da giovani, quasi tutti donne (tra di loro una precaria), il team di ricercatori che, nel laboratorio di virologia dello Spallanzani di Roma, ha isolato il coronavirus. Non c’è da stupirsi. È, se mai, stupefacente che l’Italia lasci fuggire i propri giovani all’estero dopo averli formati, o che li lasci in un limbo interminabile di precarietà e di sfruttamento.
Quando coordinai l’intervento di disinquinamento del mare libanese, dopo la bomba che aveva ridotto in poltiglia serbatoi di olio combustibile, l’apporto scientifico italiano fu – per ammissione del governo di Beirut e degli altri paesi coinvolti – innovativo e ineccepibile. A portarlo furono i giovani dell’Icram, preparati e appassionati, quasi tutti precari.
Qualche mese dopo, quando l’Icram venne inghiottito da un carrozzone, quei giovani rischiarono un’emarginazione ancor più grande in un settore che – piuttosto che consegnare la ricerca ai privati – avrebbe bisogno di grandi risorse e di credibilità. Lottarono ed ebbero ragione, ma i ricercatori italiani vengono comunque trattati come studentelli a vita, ricattabili e divisi. Sul loro lavoro siedono baroni e sigle gonfi di boria e di potere.
Nell’ambiente scientifico (come altrove) le porte del cambiamento sono sbarrate, e questa è una delle più gravi responsabilità dei detentori del potere vero, che non tutto risiede nelle stanze della politica.
La vicenda dello Spallanzani è un segnale di speranza: gli italiani non sono “brava gente”, sono molto di più.
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