di Mauro Seminara
C’è una storia nella storia quando si parla di migranti. Non di migrazioni, la cui storia andrebbe affrontata sul piano della volontà di essere impotenti messa in atto da “Paesi civili” ed economicamente evoluti. No, qui si tratta di persone e di silenzio. Di sbarchi e di informazione. Di quelle persone migranti che, stando ad alcuni funzionari di questo o quell’altro Ministero, appena vedono videocamere si gettano da qualunque cosa o posto, sia il tetto di un centro per migranti sul quale protestano che la banchina di un porto nel quale sbarcano. Ma all’assurdo non c’é mai fine, e pare che chissà quale rischio si corre per l’ordine pubblico anche quando a sbarcare non sono persone migranti vive ma decedute già da parecchi giorni. Così è stato oggi a Trapani, dove l’area portuale sulla quale sarebbero state sbarcate le salme di cinque vittime di naufragio che la nave Ong “Open Arms” aveva a bordo dall’11 novembre era stata interdetta. Non che ci fosse la calca di giornalisti. Anzi, pare che a nessuno importasse nulla delle grandi manovre tra navi quarantena e Guardia Costiera che trafficavano superstiti dalla Open Arms e salme tenute a bordo per giorni senza cella frigorifera con temperature nel Mediterraneo centrale quasi estive.
Per accedere al molo Ronciglio ci siamo rivolti alla Capitaneria di Porto ed anche alla Prefettura, ma pare che nessuno dei due era il soggetto che poteva autorizzare la stampa all’accesso. Forse la Prefettura, forse il Ministero, forse … C’era sempre qualcun altro cui dover chiedere. Magari con una bella richiesta in carta bollata presentata 48 ore prima. Per sicurezza. Purtroppo però era già difficile sul posto, e sul momento, sapere cosa e dove era stato deciso di fare di migranti e salme della Open Arms. Perfino la stessa Ong aveva raggiunto il porto di Trapani senza sapere granché su cosa avrebbe poi dovuto fare. Le telefonate sembrano essere state inutili. Per pura coincidenza però, poco dopo è arrivata un’auto della Polizia con qualcuno che ha invitato il nostro operatore a prendere la propria attrezzatura ed andare via. Via da un’area senza restrizioni al pubblico, al di là di transenne che rendevano ben lontano il punto di osservazione. Le bare, o i modesti sacchi in cui si mettono i corpi senza vita in attesa di bare, se di vittime di qualcosa o dell’assenza di qualcosa, come i soccorsi in mare, devono essere mostrate all’opinione pubblica perché possa decidere cosa pensa al riguardo. In assenza di immagini di quelle che sono le tangibili vittime di un naufragio al largo della Libia, queste morti non esistono e nessuno si forma una vera opinione al riguardo.
Al porto di Trapani non c’era la fila di operatori dell’informazione. Forse questa era una notizia da poche righe basate sulle informazioni apprese dai corrispondenti locali mediante la Prefettura o la Capitaneria di Porto. E quando un cronista è solo diventa facile da “attaccare”, in ogni modo. Sia esso l’intimidazione mafiosa che il negato diritto di cronaca. Quello che forse sfugge a molti, incluso all’Ordine dei Giornalisti ed alla Federazione Nazionale Stampa Italiana, probabilmente troppo presi dalla crisi dell’editoria, è che lasciare che al cronista si sottragga il diritto ad informare l’opinione pubblica equivale a sottrarre all’opinione pubblica il diritto di essere informata per dovere del cronista. Un cortocircuito che certo non può risolvere il problema della crisi dell’editoria che dei propri doveri pare aver perso la Carta. Il risultato di oggi è stato quindi lo stesso degli ultimi mesi, o anni: degli ultimi non si deve produrre documentazione, neanche se sbarcano morti per un naufragio che sicuramente si poteva evitare. O forse soprattutto per questa ragione. E noi che ci ostiniamo a voler raccontare, in modo documentato, quanto accade la dove i diritti sembrano essere stati aboliti ci ritroviamo anche a dover fronteggiare un nuovo pericoloso nemico della popolazione: il silenzio imposto.
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