di Mauro Seminara
Da quanto si apprende è adesso affidato alla Libia l’onere di cercare e recuperare i cadaveri di quelle persone che gli stessi libici non hanno soccorso quando ancora potevano salvare le loro vite, né hanno assunto il coordinamento delle ricerche operate dalle navi civili che volontariamente hanno tentato di sopperire all’assenza di assetti navali delle autorità nazionali. Loro, quei libici che per l’Italia sono meritevoli di un’area SAR che la stessa Italia, che un tempo ebbe motivo di orgoglio per la propria Guardia Costiera ammirata in tutto il mondo, avrebbe difficoltà a coprire, appaiono dopo questa ennesima tragedia annunciata del tutto incapaci di soccorrere, coordinare, garantire sicurezza in mare. A loro adesso è affidato il compito di recuperare da morto chi non hanno salvato da vivo.
A sud di Lampedusa il vento soffia a 40 chilometri orari in direzione di Tripoli. Il moto ondoso è ambiguo, confuso dalle diverse ed opposte correnti d’aria che si scontrano nel Mediterraneo centrale. I cadaveri accolti dal mare potrebbero quindi restare sul fondo del mare tra Lampedusa e la Libia fino a quando qualche peschereccio non tirerà resti umani amorfi nelle reti, oppure potrebbe restituire corpi sfregiati sulle coste libiche, tunisine, italiane. Queste le più plausibili macabre conseguenze del naufragio che adesso sparge cadaveri in quel tratto di mare in cui le autorità italiane dicono perentoriamente ai pescherecci nazionali di non andare a pescare perché estremamente pericoloso. L’Italia infatti ha candidamente accettato quella dichiarazione unilaterale di zona di sfruttamento esclusivo che la Libia ha esteso per mezzo Mediterraneo, e con altrettanto candore accetta e comunica che in quelle acque non garantisce la sicurezza, l’incolumità dei pescatori.
La missione “Mare sicuro” della Marina Militare che un tempo faceva vigilanza tra Lampedusa e la Libia per garantire sicurezza ai pescherecci italiani risulta adesso una farsa utile solo ad aumentare la disponibilità militare di altre missioni. Missioni come Nauras, che con una nave ferma nel porto di Tripoli risultò essere location della supplente sala operativa di quella “guardia costiera libica” che ieri avrebbe dovuto coordinare le ricerche del gommone naufragato. Per l’Italia è quindi giusto che quella metà di Mar Mediterraneo tra Lampedusa e la Libia sia zona di sfruttamento esclusivo e che se non la si abbandona si rischia la vita o un sequestro, magari di 108 giorni come nel caso dei pescatori di Mazara del Vallo liberati – non si sa a quale prezzo – prima di Natale del 2020.
Nel caso dei pescatori mazaresi sequestrati a Bengasi abbiamo parlato con alcuni di loro. La versione comune sull’episodio al momento del sequestro è stata semplice e vuole che come in questo casi era stata contattata la Marina Militare italiana che avrebbe dovuto inviare un elicottero sul posto. Due pescherecci su quattro sono riusciti a fuggire, altri due sono stati presi e dopo il trasbordo dei comandanti sulla motovedetta sono stati scortati fino a Bengasi, senza che i pescatori vedessero l’elicottero militare italiano. In quel mare, abbandonato dall’Italia, in cui il diritto internazionale ha smarrito la via, dove i profughi devono essere catturati dagli aguzzini e ricondotti nel luogo di partenza, ci sono adesso altre decine di cadaveri che la Libia dovrebbe recuperare pur essendo il principale responsabile – con la passiva complicità di Stati rivieraschi europei – della loro morte per omissione di soccorso. Dovrebbe cercare i corpi tra le onde di chi ha in qualche modo ucciso, mentre a decine di miglia di distanza un’altra barca carica di persone che nessuno ha soccorso è forse già naufragata.
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