L’incubatrice del Gattopardo

Editoriale di Mauro Seminara

Le elezioni siciliane si avvicinano a grandi passi ed anche in questo caso la Sicilia si presta a modello incubatore per la politica nazionale. Di programmi elettorali ovviamente non se ne sente parlare perché i suddetti programmi sono gli stessi nomi che compongono le liste. Al massimo qualche slogan. Una sorta di garanzia di qualità certificata. Ad esempio, se si vota per Nello Musumeci si è consapevoli dell’acquisto pacchetto completo Cuffaro-Micciché-Lombardo-Genovese e compagnia bella. E non è certo necessario chiedere a questi soggetti come intendano governare la Sicilia. Alcuni, peraltro, l’hanno già governata e ricordiamo anche come è andata: sia alla Sicilia che a loro. Un’altra parte è composta dalla lista dell’uomo “mistero della fede”, quello il cui hashtag dovrebbe essere #nonneazzeccouna ma che malgrado un ruolino timbrato con solo ed unicamente sconfitte è ancora segretario di un partito. Il suo “magnifico” candidato, il rettore dell’Università di Palermo Fabrizio Micari pare abbia le stesse opportunità di vincere le elezioni di quante il suo mentore Matteo Renzi ne abbia avute di vincere il referendum sulla riforma costituzionale. Poi ci sono gli epurati. Quelli di cui Renzi credeva di essersi sbarazzato e che invece si erano sbarazzati di Renzi ricostituendo altrove lo stesso partito. Quelli che adesso appoggiano Claudio fava con la lista con cui sfideranno il Movimento Cinque Stelle. Quest’ultimo era dato per campione indiscusso durante il Governo di Rosario Crocetta, ma con l’avvicinarsi delle elezioni pare debba fare i conti con la realtà dei fatti in un territorio in cui chi non ha nulla da regalare non va da nessuna parte. Almeno stando ai sondaggi che li vedono appunto fermi sulle stesse percentuali di Fava.
In Sicilia si mantiene lo status quo, e spesso lo si fa sperimentando nuovi metodi per cambiare tutto in modo che nulla cambi. L’indirizzo lo avevano offerto le elezioni comunali ed il metro era stato forse in particolare quello di Palermo. Il gioco delle liste paga, ed a Palermo come negli altri comuni d’Italia la differenza tra candidati ed elettori era magra. C’erano cosi tante liste a sostegno dei candidati di partito che per gli antagonisti trovare voti “liberi” da conquistare era cosa assai difficile. Il modello vincente si replica adesso con le elezioni regionali siciliane, e il candidato che ottiene più consenso secondo gli istituti demoscopici è quello che gode di così tanti sostenitori da poter vantare anche la Lega Nord tra le fila. Una nota a margine: non bisogna dimenticare che, se non bastassero i Cuffaro ed i Lombardo, adesso confluisce in questa accozzaglia partitica anche il sedicente candidato Vittorio Sgarbi che aveva lanciato l’idea di Bruno Contrada e Mario Mori tra i suoi potenziali assessori.
Da tanti anni ormai, quando un candidato esce vittorioso dalle urne, invece di dare merito al programma di governo proposto agli elettori, questi parla della buona riuscita della campagna elettorale nel corso delle interviste rilasciate. Tanto che ci si è ormai abituati alla filosofia della forma a discapito dei contenuti. Oppure ci si è abituati all’idea che un candidato che annovera tra i propri ranghi cotanto spessore ideologico e culturale non potrà certo dichiarare ai microfoni di aver vinto perché i siciliani “l’unico pizzo che vogliono” è il suo. Allo stesso modo ci si è abituati al linciaggio mediatico pre-elettorale. Non che manchi la guerra di accuse prive di contenuti fuori campagna, ma durante il periodo che precede il voto si intensificano gli attacchi e scende anche il livello della dialettica (se così la si può ancora definire). Neanche a dirlo, da questo punto di vista sono sempre tutti ben allineati ed in nemici con l’etichetta verde “attacca me” sono sempre gli stessi da qualche anno a venire: gli immigrati ed i grillini. Queste due categorie vanno sempre bene a tutti. I primi sono certamente la causa del fallimento dell’economia italiana, così si può evitare di parlare di un’opera battezzata Mose che è costata otto miliardi di euro e non funziona; e non sono neanche elettori quindi vanno benissimo. I secondi hanno la colpa di aver abusato della parola “onestà” – cosa che nella politica italiana equivale ad’una bestemmia per un cardinale in Vaticano – e per questo adesso vanno crocifissi (per restare in termini di paragone) ogni volta che un Tribunale scrive anche solo su un post-it un loro nome.
Ne sono emblema tre casi su tutti: Luigi Di Maio, Virginia Raggi, Patrizio Cinque. Il primo sarebbe, per i detrattori di destra-sinistra-centro, il casus belli perché designato premier malgrado sia indagato per diffamazione a seguito di una denuncia firmata Partito Democratico. Per questa ragione il Movimento Cinque Stelle sarebbe più che come gli altri addirittura peggio. Appalti truccati, tangenti, finanziamenti occulti al partito, leggi a vantaggio della criminalità organizzata? No, solo una denuncia politica per diffamazione. Il secondo caso è quello di Virginia Raggi, e per questo bisogna aprire una parentesi. La sindaca in assoluto più seguita mediaticamente nella storia d’Italia, quella che è andata in prima pagina per un panino sui tetti del Campidoglio e per la quale tutti hanno urlato allo scandalo quando il servizio di scorta l’ha seguita anche mentre faceva la spesa, adesso è stata rinviata a giudizio per il gravissimo reato – da dimostrare appunto in giudizio – di “falso ideologico”. Notizia che risulta talmente forte da oscurare perfino l’archiviazione dei reati con cui sono state riempite pagine e telegiornali e programmi di approfondimento per settimane. “Apprendo con soddisfazione che, dopo mesi di fango mediatico su di me e sul Movimento 5 Stelle, la Procura di Roma ha deciso di far cadere le accuse di abuso d’ufficio”, scrive la sindaca di Roma capitale su un post Facebook al quale aggiunge che: “Secondo i pm di Roma ho rispettato la legge nella scelta del capo della segreteria politica e del dirigente al dipartimento Turismo ed è stata chiesta l’archiviazione per ambedue le ipotesi di reato”. La fanfara ha smesso di suonare sul caso Marra e sul caso Romeo. Precisiamo che si parla del “caso Romeo” del Comune di Roma e non di quello dell’affare Consip che riguarda famigliari e famigli del segretario del PD. Ma in campagna elettorale è più importante il presunto falso ideologico dell’archiviazione dei presunti reati con cui Virginia Raggi era stata sistematicamente massacrata dai media di partito e dagli stessi leader politici. Breve digressione sul caso Penati, assolto in cassazione per la vicenda definita “Sistema Sesto” ma nel frattempo transitato in Mdp dal PD e quindi poco entusiasmante per alcuni “giornali”. Il terzo episodio è quello che più faceva sfregare le mani in Sicilia: il sindaco di Bagheria, comune ad alta e riconosciuta densità mafiosa e sul quale convergevano forti interessi di Bernardo Provenzano, per il quale il Gip ha deciso di revocare l’obbligo di firma richiesto ed ottenuto dalla Procura della Repubblica di Termini Imerese. Le accuse erano, come pubblicato ieri, insussistenti per la legittimazione di tale misura restrittiva. I presunti reati a cui si faceva riferimento erano “scaduti” ed in alcuni casi forse già riconosciuti inesistenti ancor prima di un giudizio e non si poteva certo pensare ad un tentativo di fuga all’estero di Patrizio Cinque oppure a lunghi viaggi volti all’occultamento delle prove da parte dello stesso primo cittadino. Anche in questo caso è poco entusiasmante il “paginone” che, in altri casi – vedi Henry John Woodcock – riempirebbe i giornali con le conseguenti contro-accuse alla Procura inquirente.
Tutto questo a cosa potrebbe servire se non a distogliere l’attenzione? Perché per procedere con i lavori, siano essi la prossima manovra finanziaria – con la distrazione sul fenomeno migratorio – o la candidatura di una lista con sostenitori che hanno scontato pene per concorso esterno in associazione mafiosa, bisogna sempre trovare su chi discutere per evitare che i panni sporchi di casa diventino oggetto di attenzione dell’opinione pubblica. Eppure il tema al centro di tutte le questioni era un altro: il Paese sta andando a gambe per aria e gli unici “statisti” che pretendono di poter sistemare le cose, senza mai spiegare come, con quale ricetta, sono gli stessi che ce lo hanno messo in queste condizioni. In Sicilia si vota il 5 novembre, e la lista fino a questo momento accreditata per la guida della Regione è quella con più ex governatori ed indagati, poi c’è quella sostenuta dall’ex premier e dal governatore uscente – e forse altrettanti indagati – ed infine le altre. Triste l’immagine di questo ensamble al governo della Sicilia per i prossimi cinque anni e, di conseguenza, dell’Italia per altri cinque. Ma il gattopardo si propone, poi sono gli elettori che lo votano permettendogli di far si che nulla cambi.

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