A proposito di fotografia etica: lo sguardo di Federica Mameli

di Roberto Greco

Le sue fotografie, con un lavoro realizzato con Marco Panzetti dal titolo “Mediterranean dispatches” sono state esposte nell’ambito del circuito OFF del Festival della Fotografia Etica. I suoi servizi foto-giornalistici sono pubblicati da importanti riviste nazionali ed internazionali. Servizi veri, crudi, nei quali l’obiettivo della macchina fotografica coincide con l’anima del fotografo, dai quali si legge la sofferenza interiore dell’autore, alla prova con i disastri della vita. Ci incontriamo a Palermo. Lei è’ arrivata da qualche giorno, ma, al suo arrivo, stava attraccando al Molo Quattroventi la nave Aquarius, di SOS Mediterranée, con a bordo i 606 migranti soccorsi in quei giorni nel canale di Sicilia. Tra questi c’erano 241 minori.

“Il mio incontro con la fotografia” racconta Federica Mameli, “è stato casuale, o forse no. E’ successo tutto dopo due viaggi molto particolari per me: il primo in Malesia, un viaggio molto ‘selvaggio’, con lo zaino costantemente in spalla, ed il secondo in India.
Al ritorno mi è stata regalata una piccola macchina fotografica digitale. Averla per le mani mi ha cambiato completamente la percezione di ciò che mi circondava, vuoi per la mia empatia con il mezzo, vuoi per l’apertura mentale dovuta all’impressionante quantità di emozioni e d’immagini accumulate nei viaggi. Non avevo mai avuto una particolare attrazione per questo mezzo, nonostante diverse persone che circondavano la mia vita. Quando quell’oggetto mi rigirava tra le mani, finiva automaticamente all’altezza dell’occhio, creando un mio nuovo punto di vista della realtà che mi circondava. In quel momento della mia vita lavoravo, occupandomi di formazione nel settore commerciale, per una grossa azienda del settore editoriale. Trovai naturale formarmi e m’iscrissi ad un master di fotogiornalismo. La mia vita prese in quel momento una piega inaspettata. Il primo reportage che realizzai, in effetti, avrebbe dovuto essere il lavoro conclusivo del master. Il tema erano i conflitti ambientali e avevo deciso di occuparmi del Sulcis, nella Sardegna del sud, vicino a Cagliari. Purtroppo non si tratta dell’unico sito, in Italia, in cui i problemi ambientali sono esplosi violentemente ma, per me, sarda da parte di padre, questa fu una scelta naturale. Mi ritrovai così a raccontare una storia fatta di avvelenamenti ma anche di disoccupazione. Portovesme, grosso insediamento industriale su quel territorio, è un pezzo di Italia nel quale scorre un fiume di veleni, dall’arsenico allo zolfo. Inoltre si segnalano casi di mutazione genetica dovuta all’enorme tasso di avvelenamento del territorio. In un vasto spazio, circa 130 ettari, si trovano ancora oggi scarti di bauxite, scarti che oramai fanno parte di un nuovo e terribile ecosistema che distrugge il terreno e il mare. Ho passato lì week-end, periodi di ferie, raccogliendo materiale fotografico e non solo. Questo lavoro mi ha appassionato moltissimo perché, in realtà, racconti il territorio, ma proprio questo diventa lo strumento per raccontare le persone, la loro vita, il loro modo di vivere e/o subire il territorio. Località che sembrano lontane dal nostro quotidiano ma che, in realtà, spesso sono dietro l’angolo. E’ stata la mia prima vera immersione del reportage. Con mia grande sorpresa, il lavoro che avrebbe dovuto essere semplicemente una ‘tesi finale’, è stato acquistato e pubblicato dalla rivista ‘Internazionale’.

Puerto Escuso (Federica Mameli)


“Non ero affatto sicura se la fotografia avrebbe potuto essere una soddisfazione anche dal punto di vista reddituale e, in quel momento, pur accettando un incarico di documentazione fotografica presso la CEI a Palermo, che riguardava il lavoro che veniva svolto dalla Caritas, continuai a dividere le mie forze e le mie risorse tra la mia vecchia occupazione e la nuova.
A Palermo incontrai, guardandolo negli occhi, il tema della migrazione. Da quel momento, i due grandi temi che hanno caratterizzato il mio lavoro, sono stati da un lato il conflitto ambientale e dall’altro le migrazioni.” continua Federica. “subito dopo ho deciso di andare a Lampedusa, che in quel momento era l’epicentro delle migrazioni verso l’Europa. C’ero già stata, in vacanza, una decina di anni prima, ma mi ero ritrovata, come la maggior parte dei turisti di quell’isola, a viverla in quanto tale, per le sue bellezze e le sue asprezze, senza avere il minimo sentore di trovarmi nel centro del Mediterraneo e quindi delle migrazioni. Lì ho iniziato a fotografare i primi sbarchi, a conoscere chi si occupava di diritti umani, chi faceva accoglienza al porto. A Lampedusa conobbi anche le principali ONG, con le quali, più tardi, avrei collaborato. Mi chiesero di salire sulla Seawatch per documentare la navigazione ed il salvataggio che veniva effettuato dalla ONG. Per me, questa, è stata una scelta importante. Il giorno in cui la Seawatch attraccò in porto io feci la mia scelta: da oggi questo è il mio lavoro.”
Da allora Federica ha percorso molte miglia in mare e molti chilometri sulle strade, con la sua macchina fotografica addosso. Un ruolo spesso non compreso, quello della foto-giornalista, in una società in cui chiunque può scattare fotografie con il proprio smartphone trovandosi, per puro caso, in quel momento di fronte ad un accadimento. La ‘visibilità’ offerta dai social media e l’ottica del diventare famosi, quindi ricchi, spesso ci fa assistere a vere e proprie operazioni di sciacallaggio, non solo da parte degli internauti compulsivi connessi e in condivisione 24 ore su 24, ma anche da parte di ‘amatori evoluti’ e ‘semi-professionisti’, spesso più alla ricerca di un riconoscimento pubblico, di un premio nazionale o di un premio in denaro, che animati dalla vera voglia di raccontare.

Palermo 2017 – Ph: Federica Mameli© 2017

La maggior parte dei servizi fotografici“, continua Federica “sia dei miei colleghi sia miei, raccontano il dolore, raccontano persone che stanno soffrendo. L’empatia, ereditata da mia madre, che mi caratterizza, mi ha sempre molto aiutato nel mio lavoro. Si legge sul mio volto. A proposito dell’attracco dell’Acquarius, mi ha colpito positivamente la qualità dell’accoglienza a Palermo. Nella mia ultima visita ad Augusta, mi sono resa conto che, visto l’alto livello di militarizzazione del porto, i migranti sbarcano e si trovano in una situazione che metterebbe a disagio chiunque. Quel venerdì sera, grazie alla mia conoscenza del porto, mi sono ritrovata in una zona riservata, dove c’erano i casi più vulnerabili, persone ferite che stavano male veramente. Ho capito che era il caso di abbassare la macchina fotografica, ho capito, e mi era successo anche a Lesbo, nelle isole greche, ma anche a Roma, quando ci fu lo sgombro degli Eritrei, che quella foto in più mi avrebbe fatto sentire inopportuna e poi non vorrei che lo facessero a me, se mi dovessi trovare in quella situazione. Quando capisci di essere fuori luogo, inopportuna… ecco quello è il momento in cui è necessario abbassare la macchina fotografica.”
Federica smette di raccontare. Il suo sguardo dolce si volta verso il cielo. Alza leggermente il viso e sorride.

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