Si chiude oggi la due giorni dedicati agli investitori che intendono guardare alla Tunisia quale parco per rendere produttivi i propri capitali. 1.200 partecipanti provenienti dalla Tunisia e da oltre 30 paesi, circa 80 soltanto dall’Italia, che nel vicino cugino nordafricano vanta già numerosi insediamenti. TIF 2017, organizzato in partnership con aziende locali ed internazionali, riunisce CEO, MD, esperti e policy-makers di alto livello, rappresentanti delle organizzazioni internazionali per discutere del clima d’investimento e delle opportunità di business prevalenti in Tunisia. “L’economia tunisina certamente rimbalzerà nei prossimi anni. L’ambiente favorevole della Tunisia, insieme ad un elevato sviluppo del capitale umano, porterà ad un aumento degli investimenti diretti esteri, che contribuiranno a stimolare gli investimenti e la crescita privati”, scrive l’organizzazione sulla presentazione dell’evento. Ma il passaggio più rilevante della brochure per attrarre gli investitori è probabilmente questo: La Tunisia “offre numerosi vantaggi operativi strategici, come la prossimità ai mercati europei e africani, i bassi livelli di burocrazia e la partecipazione a numerosi accordi di libero scambio, combinati ad un enorme spirito imprenditoriale”. I bassi livelli di burocrazia sono in effetti un’attrazione per ogni investitore europeo interessato a produrre senza dover obbligatoriamente sottostare ad un insieme stringente di regole sul diritto del lavoro o dell’ambiente, ed i nuovi accordi sul libero scambio con i Paesi europei che in molti casi avvengono attraverso la porta d’ingresso Italia contribuiscono all’economia tunisina ma uccidono quella italiana.
Il 2017, ad esempio è stato un anno particolarmente ricco per la produzione di olio d’oliva in Tunisia. Un prodotto del genere però danneggia gravemente, con la sua massiccia presenza sul mercato italiano ed europeo, il settore nostrano che vantava grandi quantitativi di produzione in Calabria ed ottimi livelli qualitativi in Sicilia e Puglia, solo per citare alcuni esempi. La “delocalizzazione” delle colture e la lavorazione direttamente fatta in Tunisia non potrà che rendere il mercato dell’olio d’oliva per i produttori italiani ben presto impraticabile. Nel frattempo anche il vino, perfino quello – di marchio della cantina vinicola – “siciliano” viene prodotto in Tunisia e già da qualche anno. Addirittura un brand ormai noto nella grossa distribuzione italiana, al tempo nato da una cantina sociale siciliana, produci alcuni vini in Tunisia con uve coltivate in loco. L’Italia continua a fornire contributi per le specializzazioni e l’assistenza alle imprese che intendono investire in Tunisia. Fondi pubblici motivati da ragioni sociali per cui si ritiene utile “aiutare” la Tunisia. Quando necessario si tira in ballo perfino la prevenzioni dell’emigrazione, così da ridurre il numero di harragas tunisini che a bordo di piccole e grandi barche raggiungono clandestinamente l’Italia. La prevenzione dei flussi migratori tunisini non ha avuto grande efficacia, ma nel frattempo hanno pagato i dati sull’occupazione nel nostro Paese e quelli sulle imprese agricole con particolare livello di danno nel Mezzogiorno. Così, tra olio d’oliva ed agrumi tunisini e grano canadese, viene azzoppato il settore primario ed intossicato il secondario a discapito dei produttori agricoli italiani che pagano tasse dalle quali vengono finanziati gli squali del settore terziario intenti solo ed unicamente alla speculazione finanziaria.
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