Quelli del Mondiale

Editoriale di Mauro Seminara

La disfatta della nazionale di calcio è lo specchio della nostra società. Vero, ma nel più dei casi è solo vuota retorica. Si rifà alla sconfitta di ieri sera, alla esclusione dal campionato mondiale, alle convocazioni, ma non a come ci si è arrivati. L’Italia e il calcio, un binomio scontato. Tanto che si da per scontato che noi, gli italiani, almeno nel calcio siamo ancora bravi e per questa semplice ragione, tutta da dimostrare, non possiamo perdere la qualificazione al Mondiale. Come se a noi spettasse di diritto parteciparvi. Come se dover perfino concorrere alla qualificazione rappresenta per noi una offesa. Lo specchio della nostra società. Ma chi sono i nostri campioni? Dove sono i talenti puri? Da quanto la Nazionale non offre spettacolo quando scende in campo? Si soffre sempre, dal primo minuto e fino al novantesimo. Si soffre per la singola disputa, si soffre per la qualificazione e si soffre per il timore di finire il Mondiale prima dei quarti di finale. Ed il “tutti a casa, abbiamo scherzato!” era già accaduto. Quindi, in teoria, si dovrebbe sapere che la Nazionale di calcio italiana non è nulla di speciale, ma in pratica la maglia azzurra ipnotizza e lascia riemergere quell’orgoglio nazionale che ormai esiste solo e precariamente nel calcio. Poi, dopo, non c’è più nulla. Neanche la memoria. Ma se parliamo di memoria dobbiamo anche ricordare che uno tra i più grandi talenti mondiali di questo sport venne rifiutato dal vivaio di un club italiano perché fisicamente non omologato: Lionel Messi
Specchio della società. Vero. Carlo Tavecchio è il presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio. Ha appena 74 anni. Un uomo che qualcuno ha difeso anche quando le gaffe erano indifendibili. Anche quando ha dimostrato che non aveva capito nemmeno che lo sport unisce e che un campo di calcio non è un area in cui il colore della pelle distingue i giocatori. Carlo Tavecchio è uno di quegli splendidi esemplari di dirigenti all’italiana, che anche di fronte ad un eclatante fallimento prende tempo e valuta se anche l’indomani il clamore sarà elevato al punto da pretendere le sue dimissioni oppure potrà far finta di nulla e tenersi attaccato la bella poltrona che gli è stata immeritatamente concessa. In Italia, in fondo, è normale che anche nello sport siano persone di 74 anni a decidere su atleti che in media non raggiungono i trenta. Così perfino la Nazionale di calcio appare un ente pubblico in cui parcheggiare figure professionali che non brillano di anticonformismo, come l’allenatore che si proponeva di continuare l’ottimo lavoro svolto dal suo predecessore. Anzi, che non brillano affatto. Ma quanto costano questi brillanti mancati? E quanto costerà all’Italia Paese questa esclusione? Ci siamo sorbiti mesi di teatro sulle ipotetiche olimpiadi romane, e poi perdiamo il giro d’affari che sta dietro la partecipazione al Mondiale di calcio 2018. Ascolti Tv bassissimi nel Paese che non partecipa al torneo, sponsor che non avranno una immagine mondiale su cui investire, maestranze che rimarranno a casa perché non ci saranno partite ed interviste da trasmettere o da tradurre, compagnie aeree con meno voli straordinari per la Russia e tanto altro ancora verrà meno mancando l’appuntamento del prossimo anno tra le grandi del mondo. Tra queste grandi, ad esempio, c’è il Senegal. L’Italia no. E non ci sarà quindi neanche l’immagine di una Nazione capace, creativa e competitiva proiettata in giro per il mondo. Chissà che domani la Cina non proponga alla sua nazionale di vestire completini azzurri, tanto stiamo lasciando tutto per strada. Identità e dignità incluse. Il grottesco caso della Nazione ospite, poi, completa lo “specchio”. Noi non andremo in Russia. Ci andranno tutti, ma non le nostre delegazioni. Nessuno avrà l’occasione pacifica dello sport per intrattenere rapporti ufficialmente non programmati con questo grosso e potente Paese che in Italia investe miliardi di euro e conta di investirne molti di più nei prossimi anni. Nessun salotto Vip in tribuna con capi di Stato e primi ministri delle grandi Nazioni.
Noi siamo quelli dei Mondiali. Quelli che una volta sapevano fare una cosa, forse, meglio di altri: incantare con la creatività e stregare gli spettatori mentre palla al piede si conquistava la porta avversaria. Adesso siamo quelli che non sanno quale politica si porterà avanti dalle prossime elezioni, e chiunque verrà eletto non potrà beneficiare della fatidica vetrina mondiale di Russia 2018. L’agenda politica in Italia viene dettata ancora da signori della veneranda età di Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi, e le figure apicali delle più importanti compartecipate dello Stato sono tutte o quasi in età pensionabile. Un Paese anziano che non investe sui giovani, neanche quando si parla di sport. La Nazionale non è più tra le grandi del mondo, e la Nazione? Quella non c’è più da parecchio. Da quando in Italia all’Università ci si va per raccomandazione altrimenti il numero chiuso delle facoltà preclude l’opportunità di studiare, malgrado questo sia un diritto sancito dalla Costituzione. L’Italia non è più tra le grandi del mondo da quando i più importanti brevetti mondiali, quelli che cambiano lo stile di vita e la cultura del pianeta, vengono depositati all’estero, a volte grazie a cervelli italiani fuggiti perché nel nostro Paese non ci sono fondi a sufficienza per la ricerca e perché la schiavitù sta sostituendo la retribuzione anche nel caso delle più brillanti menti che questa terra ha visto nascere. L’Italia ha perso la propria poltrona tra le grandi da quando ha smesso di essere un ago della bilancia i cui piatti rappresentano l’est e l’ovest del pianeta. Infatti, non riusciamo ad andare in Russia neanche per giocare al calcio. Siamo delle colf a mezzo servizio di altri potentati, e possiamo anche prepararci per sentire i francesi che ci sfottono da qui ai prossimi quattro anni se non più. Se il calcio nazionale è lo specchio della nostra società, allora la nostra società è questa: niente più pallone in strada ma smartphone a casa per giocare in modo virtuale sotto il controllo dei genitori che così non devono poi preoccuparsi più di tanto; scuola calcio per chi se lo può permettere e scuole calcio prestigiose per i più abbienti; vivaio dei club solo se si è frequentata una scuola calcio che costa di più ma ha buoni agganci con i talent scout dei grossi club; selezione in base ad estro calcistico moderato e fisicità potenziale elevata (tradotto in soldoni: poco Baggio e molto Materazzi); quando va bene panchina in una major che ha acquistato un campione straniero per qualche decina di milioni di euro oppure titolare in una squadra outsider che non ha una rosa adeguata al campionato in cui gioca. In alternativa si va all’estero, per giocare a pallone, per fare ricerca, per brevettare un’idea geniale, per dirigere una azienda, per esser fieri di essere italiani ed infine anche per capire di non voler più tornare in Italia.

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