L’assassinio di Mario Francese fu uno degli ultimi casi che finirono sulla scrivania del dottor Giorgio Boris Giuliano, il capo della Squadra Mobile di Palermo che sarà assassinato, dalla stessa mano mafiosa, poco meno di sei mesi dopo, il 21 luglio dello stesso anno. Era il 1979 e Mario Francese, giornalista, lavorava al Giornale di Sicilia, importante quotidiano del capoluogo. Anni come telescriventista per l’ANSA, poi giornalista per La Sicilia, il quotidiano etneo. Dopo un periodo come addetto stampa all’Assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Sicilia, inizia a collaborare con Il Giornale di Sicilia, occupandosi prevalentemente di cronaca giudiziaria. Da quel momento, dalla strage di Ciaculli sino all’omicidio del colonnello Russo, non c’è stata vicenda giudiziaria di cui non si sia occupato, cercando una lettura diversa e più approfondita del fenomeno mafioso. Quel 26 gennaio era sera e Mario stava rientrando a casa. Aveva salutato i colleghi al giornale con il suo solito “Uomini del Colorado, vi saluto e me ne vado”. Fu raggiunto dai proiettili dell’arma di Leoluca Bagarella.
Francese è stato probabilmente tra i primi, in Sicilia, a lavorare con la logica e i modi del giornalismo investigativo. Fu l’unico giornalista a intervistare la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella. Mario Francese fu anche il primo a indagare e capire, scavando negli intrighi della costruzione della diga Garcia, realizzata da Regione e Cassa per il Mezzogiorno che avevano stanziato più di 350 miliardi di lire per espropriare le terre ai proprietari, le più ampie collusioni che si celavano dietro al favoloso affare economico. Tra i proprietari risultarono esserci Nino e Ignazio Salvo, gli esattori di Sicilia, e Totò Riina, che a loro volta avevano acquistato quei terreni a prezzo di pascolo non molto tempo prima. Quello per lui fu il segnale dell’evoluzione strategica e dei nuovi interessi della mafia corleonese. La sua indagine fu particolarmente approfondita e riuscì a mettere in evidenza, ancora una volta unico giornalista sulla notizia, la frattura che c’era in quel momento nella “commissione di Cosa Nostra” tra “i liggiani”, che ben presto sarebbero diventati “i corleonesi” e quelli che venivano definiti i “guanti di velluto”, l’ala moderata rappresentata della mafia borghese di Palermo.
Il punto centrale della questione è proprio questo. Francese fu quello che, con efficacia e precisione, potendo contare su confidenti eccellenti, grazie al suo paziente lavoro sul territorio, descrisse in tempo reale come stava cambiando il governo di “Cosa Nostra”. E la cosa non fece piacere a nessuno. Ma la mafia, quel 26 gennaio 1979, non uccise solo Mario Francese. In quel momento mise un colpo in canna nella pistola del figlio Giuseppe. Aveva solo tredici anni quando fu ucciso il padre. Dal quel momento cominciò a raccogliere tutti gli appunti e gli articoli di suo padre. Iniziò e portò avanti pazientemente un lungo lavoro di ricerca che permise all’iter processuale di trovare un canale di sbocco nel processo che iniziò 21 anni dopo l’omicidio del padre. Giuseppe, funzionario regionale agli Enti Locali, non perse neanche un’udienza. Era sempre presente, tra i banchi, dietro i magistrati che rappresentavano l’accusa, per prendere appunti.
I giudici nella sentenza di primo grado evidenziarono che dagli articoli e dal dossier redatti da Mario Francese emerge: “Una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi, di interpretarli con coraggiosa intelligenza, e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive di Cosa nostra, in una fase storica in cui oltre a emergere le penetranti e diffuse infiltrazioni mafiose nel mondo degli appalti e dell’economia, iniziava a delinearsi la strategia di attacco di Cosa nostra alle istituzioni. Una strategia eversiva che aveva fatto – si legge ancora nelle motivazioni della sentenza – un salto di qualità proprio con l’eliminazione di una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, di un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all’opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all’interno di Cosa nostra”. Il processo terminerà nell’aprile del 2001 con la condanna a trent’anni per Totò Riina e gli altri componenti della “cupola”: Francesco Madonia, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco, Giuseppe Calò e Leoluca Bagarella, riconosciuto esecutore materiale. Fu assolto invece Giuseppe Madonia, accusato di essere il secondo killer.
Il 3 settembre 2002, Giuseppe considera conclusa la sua ragione di vita: avere giustizia per la morte del padre. Si toglie la vita, dopo averla dedicata interamente alla memoria di Mario Francese, quel padre che gli venne strappato quando era ancora un adolescente. L’impianto accusatorio regge in Cassazione, anche se sono assolti tre boss, Pippo Calò, Antonino Geraci e Giuseppe Farinella “per non avere commesso il fatto”. La sentenza del dicembre 2003 confermerà i trent’anni di carcere per Totò Riina.
Definitiva anche la pena a trent’anni inflitta a Leoluca Bagarella, Raffaele Ganci, Francesco Madonia e Michele Greco, che non avevano fatto ricorso davanti alla Cassazione. È inoltre stato confermato, in appello, l’ergastolo a Bernardo Provenzano. Dal 2013 la Diga Garcia è dedicata a Mario Francese.
Mario Francese era nato a Siracusa il 6 febbraio 1925. Non fece in tempo a compiere i suoi 54 anni. Era sposato con Maria Sagona, dalla quale ha avuto quattro figli: Giulio, Fabio, Massimo e Giuseppe. Oggi si sono svolte attività e cerimonia commemorative per il cronista scomparso nel 1979.
Commenta per primo