di Roberto Greco
La sua Panda era a cento metri da casa, il corpo in una strana posizione, i piedi penzolavano dal finestrino. “L’hanno ucciso da un’altra parte e poi l’hanno abbandonato lì”, dissero subito i familiari. Ancora oggi nessuno può dirlo con certezza. Paolo Borsellino è un giovane imprenditore che avvia un’attività, vuole lavorare nella sua terra e fare un lavoro onesto. Affronta difficoltà economiche e imprenditoriali ma il vero male arriva quando la mafia inizia ad infiltrarsi nella sua azienda. A piccoli passi, un pezzo alla volta. Paolo viene ucciso prima di rendersi conto di quanto stesse succedendo. A ritrovare il suo corpo martoriato, sdraiato nella sua Panda, sono i familiari.
Dopo vent’anni non c’è un colpevole, non c’è mai stato un processo, né un indagato. Il padre Giuseppe, che lo aiutava nell’impresa, vedendo il cadavere del figlio si fece subito un’idea precisa di chi poteva essere stato. Quella stessa notte, in caserma, davanti al capitano dei Carabinieri e al magistrato, iniziò a fare i nomi. Era il suo modo di vendicarsi. Sfidando a viso aperto quelli che credeva fossero gli assassini, chiedendo allo Stato di fare giustizia. Una scelta eversiva a Lucca Sicula, un paese di tremila abitanti, al confine tra Agrigento e Palermo, dove tutti si conoscono e a volte gli amici si scoprono mafiosi. Era un piccolo imprenditore edile Paolo Borsellino, l’altro Paolo Borsellino assassinato dalla mafia in Sicilia in quel tragico 1992.
Paolo Borsellino aveva 31 anni, una moglie e due figli piccoli. La sua vita fu fermata da un colpo di fucile al cuore sparato dalla mafia.
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